sabato 15 luglio 2017

Bibliopillola n. 20: Contro le fughe impossibili


Quattro giorni di marzo, Jens Christian Grøndahl, Marsilio 

Questo è il lungo racconto di Ingrid, una donna sconvolta dall’inattesa condotta del figlio quindicenne che la obbliga a fare i conti con se stessa, convinta fino a quel momento di essere riuscita a trovare un equilibrio come madre, professionista, single divorziata.
Dal duro interrogatorio cui si sottopone (siamo noi i più severi giudici di noi stessi, scriveva Camus) si dipana una saga fatta di ricordi personali, dei racconti dei familiari, di confronti con figure reali così diverse da quelle che le nostre infanzie spesso costruiscono per proteggerci dall’evidenza che i nostri cari altro non sono che essere umani come noi, destinati a sbagliare, a fallire, a spaventare e a tradire.
Come se le foto dell’ album di famiglia rivelassero all’improvviso persone aliene da quelle che l’hanno accompagnata fino a diventare la quarantottenne in crisi attorno alla quale si snoda la narrazione. Un architetto famoso che ha scelto la pianificazione, la razionalità per mettersi in pace, per proteggersi da ciò che avrebbe voluto ma a cui ha rinunciato accomodandosi in una serena aura di donna in carriera. 
In particolare si stagliano sulla minuziosa disamina delle relazioni che Ingrid ricostruisce i “modelli” della madre Berthe e della nonna Ada, due donne che hanno inesorabilmente intrecciato le loro vite attribuendosi vicendevolmente troppa influenza sulle decisioni che hanno segnato le rispettive esistenze. 
Mi irriterebbe però offrire una chiave di lettura "al femminile": premesso che l'autore è uno scrittore danese, sono arrivata ad un'età e ad un numero tale di letture da non consentirmi pregiudiziali considerazioni sullo stile (diverso se a scrivere è un uomo o una donna?) o sulla sensibilità mostrata nello sviscerare i sentimenti, nell’esame scrupoloso dei rapporti e delle emozioni che li reggono, come se dipendesse esclusivamente dal genere di chi racconta o di chi legge. Così come sarebbe miope interpretarlo come la vicenda di una “madre”, perché lo stesso autore ha compiuto un ammirevole sforzo nel tratteggiare ogni individuo, ogni particolare episodio esentandosi da qualsiasi tipo di valutazione: sono tutti a loro modo innocenti nei confronti della vita che, arrivata ad un certo punto, costringe più ad interrogarsi che ad agire.
È un romanzo molto bello, una sofferta ricerca di sé attraverso le donne della famiglia, attraverso le persone amate, uomini, figli, amanti. I capitoli si inanellano su una sequenza temporale (quattro giorni, appunto) che è però scardinata nella sua linearità dal continuo riprendere episodi passati, accennati, interrotti, da approfondire, modificati da un incontro, una testimonianza inaspettata, una rivelazione. Ciononostante il racconto non è mai concitato, anche in momenti di grande coinvolgimento emotivo; le caratterizzazioni dei personaggi lasciano spazio a molte  digressioni sul mondo dell’arte (Ingrid cresce in una famiglia di scrittori e critici, circondata da quadri e famosi artisti, sballottata durante le peregrinazioni egocentriche di genitori e nonni fra suggestive terrazze a Trastevere, capanni che si affacciano su fiordi, cantieri avveniristici di Stoccolma). La scrittura è davvero esemplare, riesce a rendere con una capacità di dettaglio quasi fotografica ogni sfumatura nelle voci, ogni incrinatura nelle coscienze, le distanze incolmabili e i legami indissolubili fra certe anime: è accorta, lenta, piena, illuminata da una spietata chiarezza che incanta il lettore come un orizzonte del Nord, altero ma mai freddo.
E’ dunque anche spossante, perché ci si ritrova inesorabilmente nudi insieme ai personaggi, a specchiarsi 
“nell’aria di uno che bisognerebbe evacuare al più presto dal suo inferno borghese, con una coperta della protezione civile sulle spalle curve”
Arrivata all’ultima pagina ho pensato che non esistono decisioni in sé giuste o sbagliate, che la vita può essere intensa e vera anche così, sospesa sul confine nebbioso delle scelte mancate, dei rimpianti, delle responsabilità disertate, delle relazioni giudicate e giudicanti; che le eredità che ci portiamo dietro, pesanti o leggere, rinnegate o assunte a modello, ci rendono ciò che siamo;
 che da tutto si può fuggire, tranne che da noi stessi. 



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