martedì 17 febbraio 2015

Elogio della Leggerezza

Solo chi è sceso in profondità può apprezzare davvero la superficie.

Non sempre la leggerezza è mancanza di serietà, frivola noncuranza o scarsa consapevolezza. Richiede un apprendistato, un esercizio costante, una determinazione che solo chi ha dedicato e speso energie per affrontare e sopportare oneri gravosi sa cosa vogliono dire. Imparare a far fronte alle mille difficoltà della vita può anche significare trovare porti sicuri nei quali rifugiarsi, protetti da moli che fermano i marosi e placano le acque. Luoghi dove ci si leccano le ferite e si rasserena l'animo, sedati da una quotidianità tranquilla, bonaria e semplice. Abitati da personaggi schietti e spassosi, che portano con sé i mille difetti ma anche le grandi virtù della gente di provincia, che se anche gioca malignamente con i pettegolezzi,  con la stessa convinzione non si tira mai indietro se c'è da offrire una spalla. O aiutare concretamente. Borghi dove, lontani dal trambusto della metropoli che soffoca e stritola, si può addirittura provare a realizzare i propri sogni, aprire botteghe, locande, biblioteche alternative, organizzare festival letterari come se fosse un evento di importanza internazionale, farsi coinvolgere, insomma, da una progettualità esistenziale che mette in pace con se stessi e con i mille lati oscuri della vita. Di ogni vita. Perché ognuno ne ha, e se li porta dentro. 
Ho prima frequentato Borgo Propizio, una amena località con tanto di castello e fantasmi, rigenerante e vivace: un paesotto popolato da persone normalissime, che rappresentano la condizione umana di chiunque, da chi cerca l'amore eterno, a chi realizza i propri sogni aprendo una latteria un po' speciale, a chi deve mettere fine a matrimoni sbagliati. E sembra che il luogo che le accomuna funga da catalizzatore di positività per ognuno di loro.  






E le stelle non stanno a guardare continua ad avere il Borgo come protagonista principale e abitanti vecchi e nuovi a fare da contorno: una donna ferita che riemerge dalle macerie di se stessa, improbabili scrittori a caccia di successo, anziane signore innamorate di cantanti. L'aura che li coinvolge tutti è una benevola condivisione che trasforma i dolori in un sorriso comune, che infonde fiducia e insegna speranza, uno sguardo quasi poetico sull'esistenza. Lo stile disinvolto e lieve di Loredana Limone ci regala una sensibilità che sembra leggera ma non lo è. Perché fa sorridere, distende, mette di buon umore insegnando in maniera elegantemente garbata che la vita può anche essere presa meno seriamente.

domenica 8 febbraio 2015

Su la maschera!



Il Carnevale, festa che pare risalga addirittura a 4000 anni fa, è un tema molto frequentato in materia di saggi, storiografici, antropologici e filosofici. Mescola insieme radici pagane, contadine, celtiche, religiose, mediterranee. La storia medievale, che è quella più diffusa, cita i primi riferimenti a questa festa alla fine dell'anno 1000, grazie ad un documento del doge di Venezia. Nel periodo da ottobre fino alla fine di febbraio, popolari e nobili in maschera si mescolavano per calli e campielli, amalgamandosi in una massa indistinta e uguale che annullava le rigide distinzioni sociali e creando spesso scompigli che indussero le autorità a vietare di coprirsi il volto (per permettere il riconoscimento). Gli aspetti di questa bellissima festa sono variegati e complessi e tutti in subordine rispetto all'idea principale che la anima: la "sospensione". Giorni di festa in cui non si lavora, in cui la routine è rotta e, soprattutto, rovesciata; l'ordine costituito sovvertito, trasgressione, eccessi ed infrazioni consentiti. Il contesto ludico rappresentava l'unico momento rigenerante per un popolo spesso oppresso da una società immobile e rigida, profondamente ingiusta e non egualitaria: non a caso l'assolutismo monarchico, il clero e la nobiltà pur ammettendolo (una apparente libertà controllata e limitata a pochi giorni in un anno aiutava comunque a conservare un equilibrio sociale a loro favorevole) hanno tenuto in forte antipatia il Carnevale. Un tempo dell'anima che celebrava, nell'antichità, la rinascita e la rigenerazione della fine dell'inverno; un universo simbolico di licenze, di distruzione di un ordine opprimente, di caos liberatorio, dove indossare un volto che non fosse il proprio significa tanto celare la propria reale condizione quanto assumerne un'altra agognata.



Maschera e riso sono due potenti simboli sovversivi e oggi, ancora oggi e più che mai oggi, val la pena ricordarsene. Mutare aspetto, fingersi ciò che si vuole e non ciò che si deve, sbellicarsi dalle risate per spazzare via e alleggerire, scaricare ansie e frustrazioni, esorcizzare paure e fobie: una drammatizzazione che andrebbe favorita non solo ... semel in anno.


Per questa terapia collettiva ringrazio le seguenti letture, che in realtà mi accompagnano ormai da una vita, e non smetto, per mille motivi, di leggere e rileggere:

"L'opera di Rabelais e la cultura popolare", Michail Bachtin (1965);

"Totem e Tabù", Sigmund Freud, 1913;

Mircea Eliade, "Il mito dell'eterno ritorno", 1949;

"Il ramo d'oro", James George Frazer, 1915.

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