mercoledì 8 novembre 2017

Bibliopillola n. 25: Per uscire dai Secoli Brevi

John dos Passos, Manhattan Transfer, Dalai Editore


Quando si parla della letteratura americana si citano nomi del calibro di Hemingway e Fitzgerald: eppure John dos Passos è uno dei narratori più spietatamente lucidi del sogno americano della prima metà del XX secolo. Scritto nel 1925, questo libro intreccia nell’arco di vent’anni, dagli inizi del secolo al primo dopoguerra, una manciata di esistenze che si aggirano tra i vicoli luridi e i cantieri di acciaio e vetro di una New York che sta diventando metropoli. 
Una città che comincia a svettare in altezza ma a guardarla dal basso è l’acqua scura che sciaborda intorno ai moli di Ellis Island, i bassifondi stipati di italiani, polacchi, neri, irlandesi che si procacciano lavori alla giornata morendo di fame, un dedalo di strade sporche solcate da starlette a caccia di un successo facile fra i cartelloni di Broadway e le foglie di cavolo che marciscono negli angoli, arrampicatori sociali dalle diverse fortune, avvocati rampanti, maghi di Wall Street ridotti ad elemosinare un pranzo.
È la nascita del capitalismo americano, lo sfondo del romanzo, la contemporaneità più schietta composta da una folla dalle sorti contrapposte, chi scala la rampa sociale grazie ai profitti e chi resta nelle cantine dei palazzi del potere e delle grandi industrie. 
Vite che nel racconto sono spezzettate, mischiate tra di loro, a creare ritagli dorati e nere, luminosi e cupi. 
Alcuni protagonisti tengono le fila della poliedrica narrazione, conducendo intorno alle loro storie un groviglio di personaggi minori, tutti ad affrescare un quadro vivente fatto di suoni, odori, brusii di fondo, chiasso, silenzi di miseria e musica da palcoscenico. 
Originalissima infatti la struttura narrativa, che monta insieme i vari punti di vista, con scarti minimi tra le diverse storie e il fluire degli anni che si recupera solo dai dialoghi, dalle descrizioni degli eventi. Poca punteggiatura, uno stile sperimentale che utilizza anche titoli di giornale, verbali di polizia, citazioni letterarie e brani di canzoni, in un allestimento quasi cinematografico.
Uno sperimentatore, insomma; recuperando la biografia di questo “ignoto” John dos Passos (fu tradotto la prima volta negli anni Trenta ma molte pagine furono stralciate forse perché poco gradite al regime fascista -ci sono anche anarchici e socialisti che cantano l’Internazionale nelle bettole newyorchesi-, è poi “scomparso” dalle nostre letture fino a qualche anno fa) si comprende molto di questo libro.
La vita di questo scrittore nato a Chicago, nipote di immigrati portoghesi, che ha combattuto durante la Grande Guerra per poi diventare architetto e giornalista, attribuisce  senso a tutte le figure che animano la sua America, tutte indistintamente a cercare la propria direzione, scendendo da piroscafi, solcando l’Hudson o salendo su treni: Manhattan Transfer fa infatti riferimento alla linea di una sopraelevata del West Side, e per tutto il libro le traversine su cui corrono le vite dei pendolari, le gallerie sotterranee in cui si nascondono i contrabbandieri durante il proibizionismo, insieme a reti e gallerie di fogne e agli scavi dei cantieri rappresentano sempre la NY infernale che giace sotto i palazzi in costruzione. 
Nessuno di loro troverà un punto d’arrivo. 
Nessuno potrà dire di aver realizzato il proprio sogno, anche fra coloro che addenteranno una posizione da benestanti.
Triturati dal nuovo secolo, dalle sue dinamiche spersonalizzanti, dalla fredda logica del profitto, da un progressivo ammutolirsi delle coscienze di fronte a tempi diventati frenetici, continueranno a vagare inquieti fra guerre e società nascenti, fra lustrini, gioielli e la violenza di un’epoca irrisolta.
Condannati a girare intorno a se stessi, appena arrivati sull’isola vogliono tutti andare via ma li si ritrova ancora lì, schiacciati su se stessi, dopo vent’anni.

Una bella, tardiva scoperta. Un precursore sconosciuto, una scrittura che ricorda le riprese scattanti e disorientanti delle cineprese da spalla, a testimoniare quegli anni a stelle e strisce che forse furono meno ruggenti di quel che si tramanda.

Un demistificatore, insomma, che oggi, ancora e soprattutto oggi, conviene leggere, considerando che le generazioni non si perdono solo nelle grandi guerre ma anche nell’estenuante conflittualità di un Occidente in perenne contrasto con il resto del mondo.

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