Visualizzazione post con etichetta #bugiardini. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta #bugiardini. Mostra tutti i post

giovedì 22 marzo 2018

Di singolari e plurali

Evgenij Zamjatin, Noi, Voland 



Frequentando autori e letterature si annotano migliaia di titoli; si dividono per "correnti", passioni, nomi da scoprire, curiosità, interessi linguistici ma anche e semplicemente per quelle indefinibili trame che ogni lettore tesse tra ciò che legge e ciò che vorrebbe leggere.
Alcuni libri aspettano decenni, ovviamente; altri, ahimè, sono destinati imperscrutabilmente a giacere in un appunto scritto da qualche parte.
E infine alcuni riemergono da angoli in ombra del passato e da certi anfratti ventricolari non meglio definiti, e decidi che è arrivato il momento.
Misteri degli inconsci altamente pulsionali dei lettori.
Conoscevo questo nome e questo titolo dai tempi in cui, all'università, seguivo tutti i corsi possibili immaginabili di letteratura e frequentavo lezioni di grammatiche lontane (salvo poi scoprire anni dopo che certi richiami te li porti tra una sintesi proteica e l'altra del DNA); l'avevo cercato in traduzione, dopo aver stralciato qualche pagina in originale qua e là per la rete; insomma, mi ci ero avvicinata diverse volte, per poi allontanarmi e rincorrere altro, per poi ritrovarmelo ogni tanto come spot fra le righe di pagine ed anni.
Voland, con la mirabile traduzione di Alessandro Niero, lo ha ripubblicato nel 2013, ed è in questa forma che, alla fine, me lo sono ritrovato, in tutta la sua fisicità, in casa.
Insomma, la colpa finale è del catalogo di questa casa editrice che mi delizia da un po’ con una lunga serie di traduzioni bellissime dai mondi all'ombra dei Carpazi.
E che ha riportato in libreria un romanzo misteriosamente poco conosciuto.


Algido e altero, malinconico senza essere melenso, freddo senza essere distaccato, un perfetto scenario dispotico (il primo, forse, nella storia della letteratura del genere: pare che lo stesso Orwell si sia ispirato a questo libro per poi scrivere 1984). Il nostro pianeta in un futuro in cui sono bandite tutte le emozioni, in cui la fantasia va lobotomizzata; la logica, i numeri, la razionalità scientifica giustificano con la loro conoscenza infallibile anche l'assenza di libertà, inutile elemento capace solo di creare caos e dispersione, un arbitrio che genera ribellioni e diversità non più apprezzate dopo che la precedente configurazione del pianeta si è quasi distrutta per quella conflittualità a cui la necessità della scelta conduce. 
Dunque, la si elimina. 
E’ già tutto deciso, pianificato, predisposto, non occorre scegliere nulla, non si avverte più il bisogno di alternative. Non si ha bisogno di proteggere sfere personali nelle quali coltivare fini, desideri, ambizioni: non è necessaria nemmeno la privacy, in nome di una glastnost che oltre che limpidezza d'azione è anche concreta trasparenza, poiché si vive in appartamenti le cui mura sono vetri, dove tutti sono visibili agli altri, in città chirurgicamente e asetticamente bianche. La stessa natura  è relegata dietro un "Muro Verde" che contiene dalla chiassosa e infettante varietà biologica di flora e fauna. 
Gli individui sono sinistramente identificati da sigle, vestono uniformi, e la loro vita è cadenzata da una routine scientifica, votata all'efficienza produttiva; anche le stesse relazioni sono regolate da appuntamenti prenotati, con tanto di regolare tagliando (inevitabile tornare con la memoria a Julia e Winston).
Chi scrive, in prima persona, è D-503: compila un diario. E' un uomo perfettamente funzionale al sistema, appagato, sereno e sicuro di sé.
Ma c'è un'incrinatura impercettibile che inesorabilmente si trasforma in crepa: perché avverte il bisogno di scrivere di se stesso? Perché si costringe al potere dirompente, in senso letterale, delle parole, scoprendo l'impossibilità di riuscire a definire tutto, il tormento di vivere senza anima? 
Noi non è solo il titolo: è l'impossibilità di ridurre ad un'equazione la complessità dei rapporti, è una tagliente critica all'egualitarismo a tutti i costi che massifica e appiattisce.
Zamjatin era un ingegnere navale che aveva lavorato entusiasta seguendo i ritmi esaltati e febbricitanti di un nuovo secolo che, se ai suoi albori aveva promesso progresso e scienza al servizio di un'umanità migliore, aveva poi spalancato l'abisso dell'orrore in nome dei nazionalismi; e fra le rovine di un intero mondo che ancora si combatteva sui fronti, il sogno di ripartire da una società senza diseguaglianze aveva condotto alla rivoluzione russa.
Zamjatin e il suo Noi furono sacrificati entrambi sull'altare della censura politica e dopo un silenzio di più di mezzo secolo la scrittura inaspettatamente coinvolgente di questo autore torna ad ispirarci riflessioni che non sono solo letterarie, ma filosofiche; che pur se partorite in un contesto storico che ci sembra lontano, racchiudono l'umana esigenza di rendere prioritaria una quasi-felicità all'azzardo che mette in conto anche responsabilità e sofferenze.

D-503 ci insegna ancora, con il suo amletico altalenare tra ubbidienza e ribellione, che non ci si può mai liberare della libertà.

Un monito mai anacronistico.

mercoledì 21 febbraio 2018

Bibliopillola n. 26: Prova di forza


David Foster Wallace, Infinite Jest, Einaudi 



Più che una lettura, Infinite Jest è un’esperienza: un mese trascorso in un universo psichedelico e psicotico, distopico ma terribilmente vicino ad una realtà  che DFW si è inventato vent’anni fa ma profeticamente simile alla nostra, dipendente da Internet e da un intrattenimento popolare condiviso 24h su 24. Un universo che ha riavviato il calendario dall’anno in cui è iniziata una sponsorizzazione commerciale per la quale la Statua della Libertà al posto della fiaccola tiene sollevato un prodotto che sponsorizza perfino il tempo e le vite degli individui americani, cambiato ogni primo gennaio da alcuni uomini coraggiosi con tanto di scarpe chiodate e gru; un’America che ha occupato un continente creando una  nuova e strana configurazione territoriale, costruita su città patinate e tecnologicamente all’avanguardia e sobborghi urbani terribili in cui si vive in atmosfere che ricordano moltissimo Trainspotting. Una “interdipendenza continentale” dall’inquietante acronimo di ONAN, un’America riconfigurata, la cui bandiera è un’aquila con un sombrero e la foglia d’acero in bocca. In cui un’intera regione sottomessa, il Canada, viene usata come immondezzaio, poiché enormi catapulte sparano quotidianamente i rifiuti di questa nuova nazione pulita e sponsorizzata al di là dei confini, in una Concavità radioattiva ospitante individui geneticamente modificati e terroristi separatisti: cellule però spesso in contrasto tra loro, che più che resistere rappresentano patriottismi egoistici e nazionalistici evidentemente non ancora superati.  Una società in cui esiste un circuito di trasmissione in rete di video di intrattenimento su modernissimi visori: una programmazione che sembra offrire libertà di scelta ma che in realtà è un ingabbiante monopolio tra case di produzione e hardware houses;  in cui i ragazzi, dai primi anni dell’infanzia fino all’adolescenza, vivono in college sportivi in cui vige un agonismo esasperato (veicolato delle sponsorizzazioni), abitando accademie modernissime e ipertecnologiche che però nascondono condizioni psicologiche da campo militare, nelle quali si sopravvive ad allenamenti intensivi solo con l’uso continuo, massiccio e sistematico di droghe. In cui anche i più piccoli possono sottrarsi solo una volta l’anno allo schema da lager della giornata allenamento/studio/allenamento grazie ad un gioco di ruolo (una sorta di Risiko in 3D combattuto nei locali e nei giardini degli istituti), che sfoga istinti repressi talmente feroci da risultare anche letale.  
Una società che d’altronde è stata costruita da un compulsivo, un cantante neomelodico diventato Presidente, affetto da mille ossessioni: in un’epoca post-sovietica, post-jihad, dove non ci sono più minacce esterne concrete e catalizzatrici, il leader della nazione è ossessionato da rifiuti e sporcizia, e fa del rinnovamento americano una banalissima questione estetica.  
Questa dovrebbe essere pressappoco la struttura narrativa di base del romanzo, e ho detto ben poco delle 1200 pagine che lo compongono e non credo di riuscirci affatto. 
Anzitutto perché i molti scenari, i collegamenti, le vicende dei personaggi che si intersecano tra l’ETA, le città dell’Onan, le sedi di cliniche di disintossicazione o di alcolisti anonimi si ricompongono un po’ alla volta, in un labirintico andirivieni temporale che ricopre l’arco di una decina d’anni, raccontando anche di generazioni precedenti;  molte cose mi si sono chiarite solo intorno alla metà del libro, e per comprendere davvero (… davvero?) cos’è questo “Infinite Jest” mi sono dovuta ritrovare ansimante intorno alla pagina 1000. 
Una famiglia che riunisce i  protagonisti principali traina tutti i livelli del racconto: sono gli Incandenza. 
Il padre ex-sportivo e poi regista d’avanguardia, la madre manager dell’Accademia Tennistica (l’ETA, appunto) e i loro tre figli: Orin, violentemente traumatizzato dalla figura del padre; Hal per molti aspetti chiave interpretativa di aspetti significativi delle vicende, diciassettenne promessa del tennis agonistico; infine, Mario, terribilmente deforme fin dalla nascita, che paradossalmente è il componente più “stabile”, mentalmente ed emotivamente, di un gruppo familiare che spesso rasenta l’horror, sotto una parvenza di perfetto nucleo condiviso di amore e impegno. Perché mentono: tutti, continuamente, su qualsiasi aspetto della loro esistenza, sul passato, sui sentimenti, sull’educazione, al punto che le loro bugie sono ormai talmente vicine al cuore della verità da non capire più che sono bugie. 
A contorno, almeno una decina di personaggi ricorrenti che srotolano e annodano le molteplici evoluzioni della trama. 
Che è spesso fatta esplodere da lunghe e monografiche riflessioni di qualsiasi tipo, che esplorano qualsiasi tematica, e mai in maniera superficiale ma sempre approfondita con competenze quasi saggistiche ed una scrittura che pur essendo così esaustiva non è mai noiosa. Ci si può fermare per decine di pagine a leggere le proprietà di ogni tipo o famiglia di droga, dalle sintetiche alle naturali, passando per quelle veicolate farmaceuticamente o reperibili in lontanissimi luoghi del mondo; ci si può fermare a leggere incantati la minuziosa descrizione di un set di tennis, anche se non ci si è mai capito nulla di questo sport o addirittura ci è risultato fino a quel momento antipatico. Ritrovandosi competenti in materia di strategie di gioco, tecniche di battute o di costruzione di racchette, competizioni e tornei, tanto che da quest’anno ho deciso di seguire Wimbledon. 
Ancora all’ultima pagina, dopo un mese di lettura, non  mi capacitavo della sua straordinaria bravura nel rendere narrativamente qualsiasi ambito di discussione (anche il meno vicino a qualsiasi conversazione normale)  accattivante  e appassionante, utilizzando gli stili più diversi, dalle discussioni a larghissimo respiro, riflessive e colte, ai dialoghi ritmati, frenetici, senza punteggiatura. 
E non mi soffermo, per mille motivi, sulle pagine più belle, quelle nelle quali si vede il riflesso sbiadito e sofferto di David Foster Wallace, nelle quali nemmeno si racconta ma si testimonia il “Disagio” di una società malata, continuamente in analisi, in cui la volontà individuale è azzerata e si soccombe alla Dipendenza, dall’alcool, dalle droghe, dalla violenza. 
Pagine affascinanti e agghiaccianti, costruite su laceranti monologhi interiori, su frammenti di ricordi, personalità devastate e spaventate che cercano disperatamente di venirne fuori. 
A tratti dolorose ma anche stupefacenti, profonde, spaventosamente coinvolgenti, perché i livelli di esplorazione dell’umano, di tutto ciò che è umano, sono incredibilmente complessi.  
Aleggia, per tutte le pagine del libro, una Colpa: da espiare, da alleviare, da dimenticare, da pagare. In un mondo nel quale, invece, non ci sono più né cause né scuse, che azzera volontà e responsabilità, che ha ideato un meccanismo perfetto per cercare sempre negli altri gli artefici della nostra rovina, consentendoci così di trasmettere la disfatta a tutti coloro che ci circondano.

Solo poche righe, infine (ma non svelo nulla di rilevante), su Infinite Jest: è il nome di un video di cui si parla fin dalle prime pagine, una fonte di divertimento gravemente sviante, una visione che suscita un piacere talmente intenso da essere mortale. Chi ha iniziato a vederlo non è riuscito più a staccarsene, spegnendosi in uno stato catatonico irreversibile. 
L’ultimo lavoro di un regista folle, del capostipite degli Incandenza, che diventa un oscuro oggetto del desiderio per molti.
Ma forse è tutto uno scherzo.
O forse no.



Nota*
In realtà non sono nemmeno lontanamente riuscita a descrivere ciò che significa trascorrere un mese dentro Infinite Jest: non potevo dire più di così eppure è come se non avessi detto nulla. 
E non provo nemmeno a trasferire emotivamente quanto può coinvolgere.
Posso solo dire che ora ho capito perché lo hanno definito un libro geniale.


Nota della nota**
Dimenticavo: DFW costringe ad un continuo rimando, durante la lettura, alle trecento pagine finali di note, assolutamente imprescindibili, nonostante il continuo slogarsi di polsi su un tomo da sorreggere che pesa più di un chilo. Eppure in quelle note si chiariscono, si approfondiscono, si interpretano, si recuperano intere vicende assolutamente funzionali al contesto della trama, anche se non in quella precisa pagina.  
Per cui, sappiatelo, non si possono saltare. 
Nemmeno una.


mercoledì 8 novembre 2017

Bibliopillola n. 25: Per uscire dai Secoli Brevi

John dos Passos, Manhattan Transfer, Dalai Editore


Quando si parla della letteratura americana si citano nomi del calibro di Hemingway e Fitzgerald: eppure John dos Passos è uno dei narratori più spietatamente lucidi del sogno americano della prima metà del XX secolo. Scritto nel 1925, questo libro intreccia nell’arco di vent’anni, dagli inizi del secolo al primo dopoguerra, una manciata di esistenze che si aggirano tra i vicoli luridi e i cantieri di acciaio e vetro di una New York che sta diventando metropoli. 
Una città che comincia a svettare in altezza ma a guardarla dal basso è l’acqua scura che sciaborda intorno ai moli di Ellis Island, i bassifondi stipati di italiani, polacchi, neri, irlandesi che si procacciano lavori alla giornata morendo di fame, un dedalo di strade sporche solcate da starlette a caccia di un successo facile fra i cartelloni di Broadway e le foglie di cavolo che marciscono negli angoli, arrampicatori sociali dalle diverse fortune, avvocati rampanti, maghi di Wall Street ridotti ad elemosinare un pranzo.
È la nascita del capitalismo americano, lo sfondo del romanzo, la contemporaneità più schietta composta da una folla dalle sorti contrapposte, chi scala la rampa sociale grazie ai profitti e chi resta nelle cantine dei palazzi del potere e delle grandi industrie. 
Vite che nel racconto sono spezzettate, mischiate tra di loro, a creare ritagli dorati e nere, luminosi e cupi. 
Alcuni protagonisti tengono le fila della poliedrica narrazione, conducendo intorno alle loro storie un groviglio di personaggi minori, tutti ad affrescare un quadro vivente fatto di suoni, odori, brusii di fondo, chiasso, silenzi di miseria e musica da palcoscenico. 
Originalissima infatti la struttura narrativa, che monta insieme i vari punti di vista, con scarti minimi tra le diverse storie e il fluire degli anni che si recupera solo dai dialoghi, dalle descrizioni degli eventi. Poca punteggiatura, uno stile sperimentale che utilizza anche titoli di giornale, verbali di polizia, citazioni letterarie e brani di canzoni, in un allestimento quasi cinematografico.
Uno sperimentatore, insomma; recuperando la biografia di questo “ignoto” John dos Passos (fu tradotto la prima volta negli anni Trenta ma molte pagine furono stralciate forse perché poco gradite al regime fascista -ci sono anche anarchici e socialisti che cantano l’Internazionale nelle bettole newyorchesi-, è poi “scomparso” dalle nostre letture fino a qualche anno fa) si comprende molto di questo libro.
La vita di questo scrittore nato a Chicago, nipote di immigrati portoghesi, che ha combattuto durante la Grande Guerra per poi diventare architetto e giornalista, attribuisce  senso a tutte le figure che animano la sua America, tutte indistintamente a cercare la propria direzione, scendendo da piroscafi, solcando l’Hudson o salendo su treni: Manhattan Transfer fa infatti riferimento alla linea di una sopraelevata del West Side, e per tutto il libro le traversine su cui corrono le vite dei pendolari, le gallerie sotterranee in cui si nascondono i contrabbandieri durante il proibizionismo, insieme a reti e gallerie di fogne e agli scavi dei cantieri rappresentano sempre la NY infernale che giace sotto i palazzi in costruzione. 
Nessuno di loro troverà un punto d’arrivo. 
Nessuno potrà dire di aver realizzato il proprio sogno, anche fra coloro che addenteranno una posizione da benestanti.
Triturati dal nuovo secolo, dalle sue dinamiche spersonalizzanti, dalla fredda logica del profitto, da un progressivo ammutolirsi delle coscienze di fronte a tempi diventati frenetici, continueranno a vagare inquieti fra guerre e società nascenti, fra lustrini, gioielli e la violenza di un’epoca irrisolta.
Condannati a girare intorno a se stessi, appena arrivati sull’isola vogliono tutti andare via ma li si ritrova ancora lì, schiacciati su se stessi, dopo vent’anni.

Una bella, tardiva scoperta. Un precursore sconosciuto, una scrittura che ricorda le riprese scattanti e disorientanti delle cineprese da spalla, a testimoniare quegli anni a stelle e strisce che forse furono meno ruggenti di quel che si tramanda.

Un demistificatore, insomma, che oggi, ancora e soprattutto oggi, conviene leggere, considerando che le generazioni non si perdono solo nelle grandi guerre ma anche nell’estenuante conflittualità di un Occidente in perenne contrasto con il resto del mondo.

mercoledì 25 ottobre 2017

Bibliopillola n.24: Per diradare la nebbia

Il porto delle nebbie, Pierre Mac Orlan, Adelphi 


Ci sono libri che ti ruotano intorno per una vita; li trovi citati da autori che per certi periodi leggi forsennatamente, e li appunti su diari o quarte di copertina; li ritrovi menzionati in testi di critica letteraria; poi inizi a cercarli e non ci sono edizioni disponibili. Dopo un ventennio li scorgi casualmente in libreria, tradotti e ripubblicati. Passa ancora un po’ di tempo e un giorno qualsiasi senza un motivo particolare decidi finalmente di comprarli.

È andata così con il Il porto delle nebbie di Pierre Mac Orlan.

Presi nota di questo libro ai tempi dell'università. Lo nominava Sartre per il quale nutrivo una sconsiderata passione e del quale leggevo tutto ciò che trovavo, dai romanzi, ai testi teatrali, ai saggi filosofici. Poi lo rintracciai nei dintorni di Céline, nelle letture ambientate a Montmartre, tra le parole di chi raccontava quell'Europa sospesa e senza forze tra le due guerre. Qualche tempo fa mi accorsi dell’edizione Adelphi ma l'ho acquistato solo l'anno scorso. 
Finalmente l'ho letto, e il cerchio s’è chiuso. 

Di cosa parla questo libro? Di tutte le esistenze che brancolano in una foschia che sa di umido e che avvolge in certe epoche della vita, in cui ci si sente in bilico come quando si cammina sul ciglio del burrone con la consapevolezza che ci aspetta un abisso. Quei periodi che fanno presagire catastrofi ma si procede ostinatamente, con le mani davanti a parare ostacoli. 


Il titolo originale è Le quai des brumes: più che “porto” (in realtà i quais sono i larghi moli sul Lungosenna, con le centinaia di chiatte abitate che all’inizio del XX secolo trasformavano una metropoli nascente in una sorta di città portuale) a mio avviso rende meglio la traduzione “crocevia”. Cinque solitudini che si incontrano in una notte d’inverno fredda e cupa in una bettola*, con la neve a coprire le strade deserte di Montmartre.
Cinque personaggi dalle esistenze poco definite, dai contorni sfumati intorno ad anime nere segnate da tragedie personali. Saranno inghiottiti dalla nebbia di una capitale lacerata dalle contraddizioni di inizio secolo: la patinata Parigi della Belle Epoquè che celava la spaventosa durezza delle condizioni degli abitanti dei sobborghi. Bohemiens più negletti e meno romantici del secolo precedente, incattiviti dalla fame vera, resi cinici dalla miseria.
Vite vissute senza più passione e un lettore che resta spiazzato di fronte al freddo, asettico racconto delle loro débâcles: ed è qui la maestosità della scrittura di Mac Orlan, nel saper rendere questa periferia ai margini del mondo nella quale i protagonisti vivono come lupi e con i lupi, fra assassini e clochards che non appartengono più alla razza umana, ridotti ad implacabili congegni meccanici.

Prostitute già vecchie a diciannove anni e artisti squattrinati che riescono a dipingere solo la morte; macellai che guardano al mondo come una massa di carne inerte e soldati che come scarafaggi si arruolano nella legione straniera per avere i pasti assicurati. L’unica cosa che conta è dormire al caldo e trovare da mangiare, e quest’unica spossante occupazione li distoglie dal riprendere in mano le loro esistenze, li sprofonda in una nebbia sempre più fitta, quella

di un’Europa che a quell’epoca dormiva beata come un ipocrita animale da preda, e l’umanità pensava cose scriteriate, con il tacito consenso dell’animale addormentato. Le future vittime, predisposte dai giornali, ingrassavano nell’inconsapevolezza del cataclisma (sta infatti per scoppiare la Prima Guerra Mondiale)

Il libro fu scritto nel marzo 1927 da un autore che aveva vissuto in prima persona i patimenti della miseria da lui descritti con tanta superba bravura: e li racconta in un momento in cui, di nuovo, ci si trova a vivere una condizione di atterrita sospensione, quello tra le due guerre. Leggere la biografia di Mac Orlan è sorprendente: una vita da funambolo, scrittore, fisarmonicista, cantautore, spesso povera, poco compresa, con qualche sprazzo di fama alternato a censure. I suoi contemporanei non colsero, rimuovendo come solo noi europei sappiamo fare, il monito celato tra le disperate verità dei suoi personaggi, una profezia che artisti di levatura letteraria internazionale come Malraux e Queneau, Apollinaire e Picasso avevano invece assai chiara davanti agli occhi. Né i suoi lettori apprezzarono (passò nel panorama letterario degli anni trenta fra l’indifferenza più sconcertante) la sperimentazione dell’impersonalità, il realismo distaccato e privo di emotività, l’impareggiabile maestria che occorre per raccontare il mistero dell’esistenza. Solo alcuni compresero che quella miseria senza splendore poteva essere scritta solo così, senza sconti: sarà Louis Ferdinand Céline a dire di Mac Orlan

Aveva già visto tutto, capito tutto, inventato tutto
  
Nelle centocinquanta pagine di questo testo si riassume l’epopea della letteratura della prima metà del Novecento, di una metà di secolo che è stata attraversata furiosamente dalla prova dell’estrema brutalità umana, dalla violenza e dall’indigenza, testimoniate, raccontate, urlate dalle più belle sperimentazioni artistiche in tutti i campi. 
Quando l’ho riposto dopo averlo finalmente letto, atteso da vent’anni, ho pensato: 

- devo tornare a Parigi e cercare il Lapin Agile; 

- voglio vedere il film “Il porto delle nebbie” del 1938 sceneggiato da Prévert, diretto da Carné e interpretato da Jean Gabin; 

- storicamente siamo di nuovo qui, a rischiare di essere inghiottiti dalla nebbia.


Imperdibile.





*La bettola descritta nel romanzo, il “Lapin Agile” esiste davvero. Era un luogo per indigenti nato con il nome “Cabaret des Assassins” quando ancora sulla collina di Montmartre non c’era il Sacro Cuore e "cabaret" significava solo ritrovo, non luogo di intrattenimento artistico. Sulla facciata agli inizi del secolo fu dipinto dal caricaturista Andrès Gill un coniglio che scappava da una pentola e gli fu cambiato il nome in Au Lapin à Gill. Dopo la guerra la clientela diventò più rispettabile (ma mai ricca) e fu frequentato da personaggi come Modigliani, Picasso, Apollinaire: i personaggi di questo libro richiamano persone realmente esistite che bazzicavano insieme a Mac Orlan intorno al Lapin Agile.

Trovate il locale all’angolo tra rue des Saules e rue saint Vincent.


Disclaimer

Questo blog non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene aggiornato senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge n. 62 del 7.03.2001.
Le informazioni contenute in questo blog, pur fornite in buona fede e ritenute accurate, potrebbero contenere inesattezze o essere viziate da errori tipografici. Gli autori si riservano pertanto il diritto di modificare, aggiornare o cancellare i contenuti del blog senza preavviso.
Gli autori non sono responsabili per quanto pubblicato dai lettori nei commenti ad ogni post. Verranno cancellati i commenti ritenuti offensivi o lesivi dell’immagine o dell’onorabilità di terzi, di genere spam, razzisti o che contengano dati personali non conformi al rispetto delle norme sulla Privacy e, in ogni caso, ritenuti inadatti ad insindacabile giudizio degli autori stessi.
Alcuni testi o immagini inserite in questo blog sono tratte da internet e, pertanto, considerate di pubblico dominio; qualora la loro pubblicazione violasse eventuali diritti d’autore, vogliate comunicarlo via email. Saranno immediatamente rimossi.
Gli autori del blog non sono responsabili dei siti collegati tramite link né del loro contenuto che può essere soggetto a variazioni nel tempo.