Quattro giorni di marzo, Jens Christian Grøndahl, Marsilio
Questo è il lungo racconto di Ingrid, una donna
sconvolta dall’inattesa condotta del figlio quindicenne che la obbliga a fare i
conti con se stessa, convinta fino a quel momento di essere riuscita a trovare
un equilibrio come madre, professionista, single divorziata.
Dal duro interrogatorio cui si sottopone (siamo noi i più severi giudici di noi stessi, scriveva
Camus) si dipana una saga fatta di ricordi personali, dei racconti dei
familiari, di confronti con figure reali così diverse da quelle che le nostre
infanzie spesso costruiscono per proteggerci dall’evidenza che i nostri cari
altro non sono che essere umani come noi, destinati a sbagliare, a fallire, a
spaventare e a tradire.
Come se le foto dell’ album
di famiglia rivelassero all’improvviso persone aliene da quelle che l’hanno
accompagnata fino a diventare la quarantottenne in crisi attorno alla quale si
snoda la narrazione. Un architetto famoso che ha scelto la pianificazione, la
razionalità per mettersi in pace, per proteggersi da ciò che avrebbe voluto ma
a cui ha rinunciato accomodandosi in una serena aura di donna in carriera.
In
particolare si stagliano sulla minuziosa disamina delle relazioni che Ingrid
ricostruisce i “modelli” della madre Berthe e della nonna Ada, due donne che
hanno inesorabilmente intrecciato le loro vite attribuendosi vicendevolmente
troppa influenza sulle decisioni che hanno segnato le rispettive esistenze.
Mi
irriterebbe però offrire una chiave di lettura "al femminile":
premesso che l'autore è uno scrittore
danese, sono arrivata ad un'età e ad un numero tale di letture da non
consentirmi pregiudiziali considerazioni sullo stile (diverso se a scrivere è
un uomo o una donna?) o sulla sensibilità mostrata nello sviscerare i
sentimenti, nell’esame scrupoloso dei rapporti e delle emozioni che li reggono,
come se dipendesse esclusivamente dal genere di chi racconta o di chi legge. Così
come sarebbe miope interpretarlo come la vicenda di una “madre”, perché lo
stesso autore ha compiuto un ammirevole sforzo nel tratteggiare ogni individuo,
ogni particolare episodio esentandosi da qualsiasi tipo di valutazione: sono
tutti a loro modo innocenti nei confronti della vita che, arrivata ad un certo
punto, costringe più ad interrogarsi che ad agire.
È un romanzo molto bello, una
sofferta ricerca di sé attraverso le donne della famiglia, attraverso le
persone amate, uomini, figli, amanti. I capitoli si inanellano su una sequenza
temporale (quattro giorni, appunto) che è però scardinata nella sua linearità
dal continuo riprendere episodi passati, accennati, interrotti, da
approfondire, modificati da un incontro, una testimonianza inaspettata, una
rivelazione. Ciononostante il racconto non è mai concitato, anche in momenti di
grande coinvolgimento emotivo; le caratterizzazioni dei personaggi lasciano
spazio a molte digressioni sul mondo
dell’arte (Ingrid cresce in una famiglia di scrittori e critici, circondata da
quadri e famosi artisti, sballottata durante le peregrinazioni egocentriche di
genitori e nonni fra suggestive terrazze a Trastevere, capanni che si
affacciano su fiordi, cantieri avveniristici di Stoccolma). La scrittura è
davvero esemplare, riesce a rendere con una capacità di dettaglio quasi
fotografica ogni sfumatura nelle voci, ogni incrinatura nelle coscienze, le
distanze incolmabili e i legami indissolubili fra certe anime: è accorta,
lenta, piena, illuminata da una spietata chiarezza che incanta il lettore come
un orizzonte del Nord, altero ma mai freddo.
E’ dunque anche spossante, perché
ci si ritrova inesorabilmente nudi insieme ai personaggi, a specchiarsi
“nell’aria di uno che bisognerebbe evacuare al più presto dal suo inferno borghese, con una coperta della protezione civile sulle spalle curve”
Arrivata all’ultima
pagina ho pensato che non esistono decisioni in sé giuste o
sbagliate, che la vita può essere intensa e vera anche così, sospesa sul
confine nebbioso delle scelte mancate, dei rimpianti, delle responsabilità disertate,
delle relazioni giudicate e giudicanti; che le eredità che ci portiamo dietro,
pesanti o leggere, rinnegate o assunte a modello, ci rendono ciò che siamo;
che
da tutto si può fuggire, tranne che da noi stessi.