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sabato 13 ottobre 2018

Bibliopillola n. 28: Dell'inesistenza del caso nella scelta dei libri da leggere


(e quindi lasciarsi scegliere dagli stessi: può essere terapeutico)


"Se non vuoi essere delusa, basta che abbassi le aspettative. Questa in particolare mi pareva condensare un approccio terrificante alla vita, tanto in una madre quarantacinquenne quanto in una figlia ventenne"

Julian Barnes, L'unica storia, Einaudi

A volte capita di vedere una coppia e ti sembra che tutti due si annoino a morte, e non riesci a immaginare che abbiano ancora qualcosa in comune, non capisci perché stiano ancora insieme. Ma non è solo questione di abitudine, di sopportazione, di rispetto delle convenienze o altre cose del genere. E' che in passato hanno avuto la loro storia d'amore. Come tutti. L'unica e sola storia.

Trasformiamo ogni cosa che ci accade in storia, ci raccontiamo per vivere, per sperare, per ricordare. 

E forse alla fine ce n’è una, una sola, che conta più delle altre.


Un libro potente, affilato, lucidamente vero; perché solo a posteriori, da quella finestra sul mondo non più opaca ma consapevolmente nitida che è la vecchiaia, si possono comprendere gli anni passati, le scelte, gli amori. Senza colpevolizzazioni né assoluzioni, semplicemente prendendo coscienza di ciò che si è stati, di come si è vissuto. 

Non si parla solo di una storia d'amore, ma DELLE storie d'amore. 

Tutte le relazioni contengono sin dall'inizio un potenziale alienante distruttivo, che si cerca di negare fino all'ultimo. Il nodo cruciale della trama è quello: per ognuno, comunque e sempre, l'amore è uno. Quello che può anche trasformarsi in un orribile grumo di rabbia e pena. 

Passa forse anche in secondo piano il fatto che il giovane Paul sia il cicisbeo di una donna sposata di mezza età, a parte lo scandalo per la società inglese benpensante e alto borghese; che l'avvio del romanzo faccia pensare ad una iniziazione sessuale di uno sprovveduto diciannovenne o del riscatto tardivo di una quarantottenne accasata. Per la prima metà risulta essere una storia come tante. E le pagine sono liriche, idilliache, sfrontate, coraggiose. Non c'è nemmeno per un attimo da parte di chi legge la sensazione di collocarsi in una posizione giudicante, rispetto al troppo giovane seduttore, alla avventata e rispettabile signora inglese, ad una cerchia sociale intorno che finge, critica, tace. 

Ma dalla metà esatta il registro cambia. E le parole diventano terribili, raccontando dell'abisso in cui la discussa coppia precipita, soffocata proprio da ciò che aveva sfidato fin dall'inizio: le convenzioni, i moralismi, un'idea immarcescibile di famiglia. 

Dopo mezzo secolo il non più giovane protagonista, interiorizzato tutto il dolore, indossata la coriacea scorza della senilità, solo allora, alla domanda se valga sempre la pena amare, risponde in un modo che non lascia scampo. 


Barnes continua a lasciare che la sua penna sia dettata dal Tempo, come nei precedenti romanzi; l'accumulatore di materia viva da raccontare, un magma che ribolle solo fino a quando, superate certe boe, si raggiunge quella freddezza che consente di placarlo, plasmarlo, e renderlo specchio fedelissimo dell'animo umano, di come esso reciti le sue parti nelle diverse epoche della vita, credendo ogni volta ad una perfetta fusione con il suo personaggio, reagendo nel solo modo che la sua età gli mette a disposizione.


Come se inconsapevolmente per ogni periodo fossimo gettati su un palcoscenico a scegliere tra un numero ben preciso di maschere e di costumi per affrontare la serata e il pubblico: se stessi, il mondo in cui si vive, le persone amate intorno. 




Sandor Marai, La recita di Bolzano, Adelphi
Ed è davvero curioso che mi sia ritrovata quasi per caso a leggere, immediatamente dopo questo libro, un testo apparentemente molto diverso, più lontano nel tempo, scritto nel 1940 da Sandor Marai, con un protagonista di tutto rispetto: Giacomo Casanova. Proprio il più famoso dei libertini, l'avventuriero veneziano che scappa dai Piombi e si rifugia a Bolzano in attesa che le acque si plachino intorno alla sua evasione e possa continuare la sua fuga verso il cuore dell'Europa. 

E' un seduttore quarantenne, stanco ma non domo, infuriato per tutta la vita persa in carcere, ansioso di recuperare il tempo perduto, che per lui vivere significa soltanto consumare passioni dopo passioni, restare acceso, poter muoversi continuamente senza obblighi, vincoli, mura intorno, nemmeno quelle di una casa o di una professione. 

Vive di espedienti, è un baro, ma, principalmente, seduce: la vita, le persone, il mondo. E lo fa non con un aspetto forse mai stato bello, ma con il potere ammaliante delle parole e dei modi messi al servizio di un istinto ferino che fa comunque capolino in ogni sua scorribanda. 

Il segreto della sua arte è l'amore stesso per la vita, perchè è essa stessa che seduce e lusinga, regalando tutte le forme d'amore possibili da ripetere finchè la vecchiaia non ci consenta più tutto il dinamismo che la passione, ogni passione, esige. Perchè è un furibondo dispendio di energie, fisiche e dialettiche, l'amore, è mai sazio bisogno e sete di sapere, di conoscere, di sperimentare. E' come se Giacomo corresse disperato davanti alla sua stessa età, finché può, finché riesce ancora a recitare le sue mille parti, spesso nemmeno consapevole delle sue stesse finzioni, per l'immensa forza di convincimento con la quale le esprime. 


Una recita, sì.


Una volta evaso, di nuovo libero, avverte tuttavia oltre all'ebbrezza dell'aria fresca anche i primi inediti pungoli della solitudine, e non comprende perché la sua sosta a Bolzano si protragga tanto, fino a che non intuisce di essere lì ad aspettare qualcosa. O qualcuno. 

Un anziano conte che lo sorveglia non appena arrivato in città e che poi addirittura si presenta alla sua locanda; la sua giovane moglie, conosciuta cinque anni prima e per la quale i due si batterono in duello. 


E da questo momento il bellissimo romanzo di Marai incunea un monologo dietro l'altro, un gioco di specchi che si rivela essere un ménage à trois, nel quale non c'è solo un potente sul viale del declino che gioca le sue ultime carte per tenersi accanto la donna che ama, ma anche lo stesso Giacomo che si intravede, riflesso sfuggente, nelle parole dell'anziano uomo, c'è una giovane donna innamorata che è fulcro di passioni contrastanti e che sembra possa far vacillare la fama di dongiovanni incallito incapace di innamorarsi davvero. La stanza della locanda, dapprima visitata dal Conte, poi dalla stessa fanciulla, diventa un palcoscenico, in cui tutti sono insieme attori e spettatori, in cui si passa dall'ascoltare al calcare la scena, scambiandosi ruoli e maschere, sovvertendo ogni piano, in un' alternanza di giuochi e di ruoli che si riassume tutto nella frase " Io sono la vita". 

E' questa la frase con cui Francesca, la moglie del conte, si presenta, la vita di due uomini, dei quali l'uno l'ama, l'altro è amato. Pronta a tutto per amare, vivere, soffrire e capire, anche vendicarsi: perché Giacomo non potrà dimenticare chi si è tolto tutte le maschere davanti a lui, provando a guardare il suo vero, nudo, volto. 


Sono pagine di confessioni, rivelazioni, scritte con quello stile raffinato e profondo che è un bulino, ad intagliare ogni piega dell'animo umano e mostrarla in tutta la bellezza dei suoi spigoli vivi. Quasi soliloqui perché non c'è da replicare, loro stessi si ascoltano a vicenda, frammezzando spezzoni di frasi o risposte (alcune memorabilissime, "è poco", "è troppo"): non c'è da contestare, protestare, sfidarsi, ognuno dice la sua verità.


Perché, alla fine di questi giorni in cui ho sovrapposto le due letture, allacciate insieme dalla casualità mai casuale con cui i libri si fanno leggere uno dopo l'altro, alla domanda quasi ridicola per quanto sfrontata, vecchia di millenni, sul perché valga la pena amare, l'unica verità possibile la ritrova l'anziano Barnes alla fine del suo racconto, in un taccuino di gioventù, un appunto mai più depennato:



"In amore, ogni cosa è al tempo stesso vera e falsa; l'unico argomento al mondo sul quale è impossibile dire insensatezze"

giovedì 22 marzo 2018

Di singolari e plurali

Evgenij Zamjatin, Noi, Voland 



Frequentando autori e letterature si annotano migliaia di titoli; si dividono per "correnti", passioni, nomi da scoprire, curiosità, interessi linguistici ma anche e semplicemente per quelle indefinibili trame che ogni lettore tesse tra ciò che legge e ciò che vorrebbe leggere.
Alcuni libri aspettano decenni, ovviamente; altri, ahimè, sono destinati imperscrutabilmente a giacere in un appunto scritto da qualche parte.
E infine alcuni riemergono da angoli in ombra del passato e da certi anfratti ventricolari non meglio definiti, e decidi che è arrivato il momento.
Misteri degli inconsci altamente pulsionali dei lettori.
Conoscevo questo nome e questo titolo dai tempi in cui, all'università, seguivo tutti i corsi possibili immaginabili di letteratura e frequentavo lezioni di grammatiche lontane (salvo poi scoprire anni dopo che certi richiami te li porti tra una sintesi proteica e l'altra del DNA); l'avevo cercato in traduzione, dopo aver stralciato qualche pagina in originale qua e là per la rete; insomma, mi ci ero avvicinata diverse volte, per poi allontanarmi e rincorrere altro, per poi ritrovarmelo ogni tanto come spot fra le righe di pagine ed anni.
Voland, con la mirabile traduzione di Alessandro Niero, lo ha ripubblicato nel 2013, ed è in questa forma che, alla fine, me lo sono ritrovato, in tutta la sua fisicità, in casa.
Insomma, la colpa finale è del catalogo di questa casa editrice che mi delizia da un po’ con una lunga serie di traduzioni bellissime dai mondi all'ombra dei Carpazi.
E che ha riportato in libreria un romanzo misteriosamente poco conosciuto.


Algido e altero, malinconico senza essere melenso, freddo senza essere distaccato, un perfetto scenario dispotico (il primo, forse, nella storia della letteratura del genere: pare che lo stesso Orwell si sia ispirato a questo libro per poi scrivere 1984). Il nostro pianeta in un futuro in cui sono bandite tutte le emozioni, in cui la fantasia va lobotomizzata; la logica, i numeri, la razionalità scientifica giustificano con la loro conoscenza infallibile anche l'assenza di libertà, inutile elemento capace solo di creare caos e dispersione, un arbitrio che genera ribellioni e diversità non più apprezzate dopo che la precedente configurazione del pianeta si è quasi distrutta per quella conflittualità a cui la necessità della scelta conduce. 
Dunque, la si elimina. 
E’ già tutto deciso, pianificato, predisposto, non occorre scegliere nulla, non si avverte più il bisogno di alternative. Non si ha bisogno di proteggere sfere personali nelle quali coltivare fini, desideri, ambizioni: non è necessaria nemmeno la privacy, in nome di una glastnost che oltre che limpidezza d'azione è anche concreta trasparenza, poiché si vive in appartamenti le cui mura sono vetri, dove tutti sono visibili agli altri, in città chirurgicamente e asetticamente bianche. La stessa natura  è relegata dietro un "Muro Verde" che contiene dalla chiassosa e infettante varietà biologica di flora e fauna. 
Gli individui sono sinistramente identificati da sigle, vestono uniformi, e la loro vita è cadenzata da una routine scientifica, votata all'efficienza produttiva; anche le stesse relazioni sono regolate da appuntamenti prenotati, con tanto di regolare tagliando (inevitabile tornare con la memoria a Julia e Winston).
Chi scrive, in prima persona, è D-503: compila un diario. E' un uomo perfettamente funzionale al sistema, appagato, sereno e sicuro di sé.
Ma c'è un'incrinatura impercettibile che inesorabilmente si trasforma in crepa: perché avverte il bisogno di scrivere di se stesso? Perché si costringe al potere dirompente, in senso letterale, delle parole, scoprendo l'impossibilità di riuscire a definire tutto, il tormento di vivere senza anima? 
Noi non è solo il titolo: è l'impossibilità di ridurre ad un'equazione la complessità dei rapporti, è una tagliente critica all'egualitarismo a tutti i costi che massifica e appiattisce.
Zamjatin era un ingegnere navale che aveva lavorato entusiasta seguendo i ritmi esaltati e febbricitanti di un nuovo secolo che, se ai suoi albori aveva promesso progresso e scienza al servizio di un'umanità migliore, aveva poi spalancato l'abisso dell'orrore in nome dei nazionalismi; e fra le rovine di un intero mondo che ancora si combatteva sui fronti, il sogno di ripartire da una società senza diseguaglianze aveva condotto alla rivoluzione russa.
Zamjatin e il suo Noi furono sacrificati entrambi sull'altare della censura politica e dopo un silenzio di più di mezzo secolo la scrittura inaspettatamente coinvolgente di questo autore torna ad ispirarci riflessioni che non sono solo letterarie, ma filosofiche; che pur se partorite in un contesto storico che ci sembra lontano, racchiudono l'umana esigenza di rendere prioritaria una quasi-felicità all'azzardo che mette in conto anche responsabilità e sofferenze.

D-503 ci insegna ancora, con il suo amletico altalenare tra ubbidienza e ribellione, che non ci si può mai liberare della libertà.

Un monito mai anacronistico.

mercoledì 21 febbraio 2018

Bibliopillola n. 26: Prova di forza


David Foster Wallace, Infinite Jest, Einaudi 



Più che una lettura, Infinite Jest è un’esperienza: un mese trascorso in un universo psichedelico e psicotico, distopico ma terribilmente vicino ad una realtà  che DFW si è inventato vent’anni fa ma profeticamente simile alla nostra, dipendente da Internet e da un intrattenimento popolare condiviso 24h su 24. Un universo che ha riavviato il calendario dall’anno in cui è iniziata una sponsorizzazione commerciale per la quale la Statua della Libertà al posto della fiaccola tiene sollevato un prodotto che sponsorizza perfino il tempo e le vite degli individui americani, cambiato ogni primo gennaio da alcuni uomini coraggiosi con tanto di scarpe chiodate e gru; un’America che ha occupato un continente creando una  nuova e strana configurazione territoriale, costruita su città patinate e tecnologicamente all’avanguardia e sobborghi urbani terribili in cui si vive in atmosfere che ricordano moltissimo Trainspotting. Una “interdipendenza continentale” dall’inquietante acronimo di ONAN, un’America riconfigurata, la cui bandiera è un’aquila con un sombrero e la foglia d’acero in bocca. In cui un’intera regione sottomessa, il Canada, viene usata come immondezzaio, poiché enormi catapulte sparano quotidianamente i rifiuti di questa nuova nazione pulita e sponsorizzata al di là dei confini, in una Concavità radioattiva ospitante individui geneticamente modificati e terroristi separatisti: cellule però spesso in contrasto tra loro, che più che resistere rappresentano patriottismi egoistici e nazionalistici evidentemente non ancora superati.  Una società in cui esiste un circuito di trasmissione in rete di video di intrattenimento su modernissimi visori: una programmazione che sembra offrire libertà di scelta ma che in realtà è un ingabbiante monopolio tra case di produzione e hardware houses;  in cui i ragazzi, dai primi anni dell’infanzia fino all’adolescenza, vivono in college sportivi in cui vige un agonismo esasperato (veicolato delle sponsorizzazioni), abitando accademie modernissime e ipertecnologiche che però nascondono condizioni psicologiche da campo militare, nelle quali si sopravvive ad allenamenti intensivi solo con l’uso continuo, massiccio e sistematico di droghe. In cui anche i più piccoli possono sottrarsi solo una volta l’anno allo schema da lager della giornata allenamento/studio/allenamento grazie ad un gioco di ruolo (una sorta di Risiko in 3D combattuto nei locali e nei giardini degli istituti), che sfoga istinti repressi talmente feroci da risultare anche letale.  
Una società che d’altronde è stata costruita da un compulsivo, un cantante neomelodico diventato Presidente, affetto da mille ossessioni: in un’epoca post-sovietica, post-jihad, dove non ci sono più minacce esterne concrete e catalizzatrici, il leader della nazione è ossessionato da rifiuti e sporcizia, e fa del rinnovamento americano una banalissima questione estetica.  
Questa dovrebbe essere pressappoco la struttura narrativa di base del romanzo, e ho detto ben poco delle 1200 pagine che lo compongono e non credo di riuscirci affatto. 
Anzitutto perché i molti scenari, i collegamenti, le vicende dei personaggi che si intersecano tra l’ETA, le città dell’Onan, le sedi di cliniche di disintossicazione o di alcolisti anonimi si ricompongono un po’ alla volta, in un labirintico andirivieni temporale che ricopre l’arco di una decina d’anni, raccontando anche di generazioni precedenti;  molte cose mi si sono chiarite solo intorno alla metà del libro, e per comprendere davvero (… davvero?) cos’è questo “Infinite Jest” mi sono dovuta ritrovare ansimante intorno alla pagina 1000. 
Una famiglia che riunisce i  protagonisti principali traina tutti i livelli del racconto: sono gli Incandenza. 
Il padre ex-sportivo e poi regista d’avanguardia, la madre manager dell’Accademia Tennistica (l’ETA, appunto) e i loro tre figli: Orin, violentemente traumatizzato dalla figura del padre; Hal per molti aspetti chiave interpretativa di aspetti significativi delle vicende, diciassettenne promessa del tennis agonistico; infine, Mario, terribilmente deforme fin dalla nascita, che paradossalmente è il componente più “stabile”, mentalmente ed emotivamente, di un gruppo familiare che spesso rasenta l’horror, sotto una parvenza di perfetto nucleo condiviso di amore e impegno. Perché mentono: tutti, continuamente, su qualsiasi aspetto della loro esistenza, sul passato, sui sentimenti, sull’educazione, al punto che le loro bugie sono ormai talmente vicine al cuore della verità da non capire più che sono bugie. 
A contorno, almeno una decina di personaggi ricorrenti che srotolano e annodano le molteplici evoluzioni della trama. 
Che è spesso fatta esplodere da lunghe e monografiche riflessioni di qualsiasi tipo, che esplorano qualsiasi tematica, e mai in maniera superficiale ma sempre approfondita con competenze quasi saggistiche ed una scrittura che pur essendo così esaustiva non è mai noiosa. Ci si può fermare per decine di pagine a leggere le proprietà di ogni tipo o famiglia di droga, dalle sintetiche alle naturali, passando per quelle veicolate farmaceuticamente o reperibili in lontanissimi luoghi del mondo; ci si può fermare a leggere incantati la minuziosa descrizione di un set di tennis, anche se non ci si è mai capito nulla di questo sport o addirittura ci è risultato fino a quel momento antipatico. Ritrovandosi competenti in materia di strategie di gioco, tecniche di battute o di costruzione di racchette, competizioni e tornei, tanto che da quest’anno ho deciso di seguire Wimbledon. 
Ancora all’ultima pagina, dopo un mese di lettura, non  mi capacitavo della sua straordinaria bravura nel rendere narrativamente qualsiasi ambito di discussione (anche il meno vicino a qualsiasi conversazione normale)  accattivante  e appassionante, utilizzando gli stili più diversi, dalle discussioni a larghissimo respiro, riflessive e colte, ai dialoghi ritmati, frenetici, senza punteggiatura. 
E non mi soffermo, per mille motivi, sulle pagine più belle, quelle nelle quali si vede il riflesso sbiadito e sofferto di David Foster Wallace, nelle quali nemmeno si racconta ma si testimonia il “Disagio” di una società malata, continuamente in analisi, in cui la volontà individuale è azzerata e si soccombe alla Dipendenza, dall’alcool, dalle droghe, dalla violenza. 
Pagine affascinanti e agghiaccianti, costruite su laceranti monologhi interiori, su frammenti di ricordi, personalità devastate e spaventate che cercano disperatamente di venirne fuori. 
A tratti dolorose ma anche stupefacenti, profonde, spaventosamente coinvolgenti, perché i livelli di esplorazione dell’umano, di tutto ciò che è umano, sono incredibilmente complessi.  
Aleggia, per tutte le pagine del libro, una Colpa: da espiare, da alleviare, da dimenticare, da pagare. In un mondo nel quale, invece, non ci sono più né cause né scuse, che azzera volontà e responsabilità, che ha ideato un meccanismo perfetto per cercare sempre negli altri gli artefici della nostra rovina, consentendoci così di trasmettere la disfatta a tutti coloro che ci circondano.

Solo poche righe, infine (ma non svelo nulla di rilevante), su Infinite Jest: è il nome di un video di cui si parla fin dalle prime pagine, una fonte di divertimento gravemente sviante, una visione che suscita un piacere talmente intenso da essere mortale. Chi ha iniziato a vederlo non è riuscito più a staccarsene, spegnendosi in uno stato catatonico irreversibile. 
L’ultimo lavoro di un regista folle, del capostipite degli Incandenza, che diventa un oscuro oggetto del desiderio per molti.
Ma forse è tutto uno scherzo.
O forse no.



Nota*
In realtà non sono nemmeno lontanamente riuscita a descrivere ciò che significa trascorrere un mese dentro Infinite Jest: non potevo dire più di così eppure è come se non avessi detto nulla. 
E non provo nemmeno a trasferire emotivamente quanto può coinvolgere.
Posso solo dire che ora ho capito perché lo hanno definito un libro geniale.


Nota della nota**
Dimenticavo: DFW costringe ad un continuo rimando, durante la lettura, alle trecento pagine finali di note, assolutamente imprescindibili, nonostante il continuo slogarsi di polsi su un tomo da sorreggere che pesa più di un chilo. Eppure in quelle note si chiariscono, si approfondiscono, si interpretano, si recuperano intere vicende assolutamente funzionali al contesto della trama, anche se non in quella precisa pagina.  
Per cui, sappiatelo, non si possono saltare. 
Nemmeno una.


mercoledì 25 ottobre 2017

Bibliopillola n.24: Per diradare la nebbia

Il porto delle nebbie, Pierre Mac Orlan, Adelphi 


Ci sono libri che ti ruotano intorno per una vita; li trovi citati da autori che per certi periodi leggi forsennatamente, e li appunti su diari o quarte di copertina; li ritrovi menzionati in testi di critica letteraria; poi inizi a cercarli e non ci sono edizioni disponibili. Dopo un ventennio li scorgi casualmente in libreria, tradotti e ripubblicati. Passa ancora un po’ di tempo e un giorno qualsiasi senza un motivo particolare decidi finalmente di comprarli.

È andata così con il Il porto delle nebbie di Pierre Mac Orlan.

Presi nota di questo libro ai tempi dell'università. Lo nominava Sartre per il quale nutrivo una sconsiderata passione e del quale leggevo tutto ciò che trovavo, dai romanzi, ai testi teatrali, ai saggi filosofici. Poi lo rintracciai nei dintorni di Céline, nelle letture ambientate a Montmartre, tra le parole di chi raccontava quell'Europa sospesa e senza forze tra le due guerre. Qualche tempo fa mi accorsi dell’edizione Adelphi ma l'ho acquistato solo l'anno scorso. 
Finalmente l'ho letto, e il cerchio s’è chiuso. 

Di cosa parla questo libro? Di tutte le esistenze che brancolano in una foschia che sa di umido e che avvolge in certe epoche della vita, in cui ci si sente in bilico come quando si cammina sul ciglio del burrone con la consapevolezza che ci aspetta un abisso. Quei periodi che fanno presagire catastrofi ma si procede ostinatamente, con le mani davanti a parare ostacoli. 


Il titolo originale è Le quai des brumes: più che “porto” (in realtà i quais sono i larghi moli sul Lungosenna, con le centinaia di chiatte abitate che all’inizio del XX secolo trasformavano una metropoli nascente in una sorta di città portuale) a mio avviso rende meglio la traduzione “crocevia”. Cinque solitudini che si incontrano in una notte d’inverno fredda e cupa in una bettola*, con la neve a coprire le strade deserte di Montmartre.
Cinque personaggi dalle esistenze poco definite, dai contorni sfumati intorno ad anime nere segnate da tragedie personali. Saranno inghiottiti dalla nebbia di una capitale lacerata dalle contraddizioni di inizio secolo: la patinata Parigi della Belle Epoquè che celava la spaventosa durezza delle condizioni degli abitanti dei sobborghi. Bohemiens più negletti e meno romantici del secolo precedente, incattiviti dalla fame vera, resi cinici dalla miseria.
Vite vissute senza più passione e un lettore che resta spiazzato di fronte al freddo, asettico racconto delle loro débâcles: ed è qui la maestosità della scrittura di Mac Orlan, nel saper rendere questa periferia ai margini del mondo nella quale i protagonisti vivono come lupi e con i lupi, fra assassini e clochards che non appartengono più alla razza umana, ridotti ad implacabili congegni meccanici.

Prostitute già vecchie a diciannove anni e artisti squattrinati che riescono a dipingere solo la morte; macellai che guardano al mondo come una massa di carne inerte e soldati che come scarafaggi si arruolano nella legione straniera per avere i pasti assicurati. L’unica cosa che conta è dormire al caldo e trovare da mangiare, e quest’unica spossante occupazione li distoglie dal riprendere in mano le loro esistenze, li sprofonda in una nebbia sempre più fitta, quella

di un’Europa che a quell’epoca dormiva beata come un ipocrita animale da preda, e l’umanità pensava cose scriteriate, con il tacito consenso dell’animale addormentato. Le future vittime, predisposte dai giornali, ingrassavano nell’inconsapevolezza del cataclisma (sta infatti per scoppiare la Prima Guerra Mondiale)

Il libro fu scritto nel marzo 1927 da un autore che aveva vissuto in prima persona i patimenti della miseria da lui descritti con tanta superba bravura: e li racconta in un momento in cui, di nuovo, ci si trova a vivere una condizione di atterrita sospensione, quello tra le due guerre. Leggere la biografia di Mac Orlan è sorprendente: una vita da funambolo, scrittore, fisarmonicista, cantautore, spesso povera, poco compresa, con qualche sprazzo di fama alternato a censure. I suoi contemporanei non colsero, rimuovendo come solo noi europei sappiamo fare, il monito celato tra le disperate verità dei suoi personaggi, una profezia che artisti di levatura letteraria internazionale come Malraux e Queneau, Apollinaire e Picasso avevano invece assai chiara davanti agli occhi. Né i suoi lettori apprezzarono (passò nel panorama letterario degli anni trenta fra l’indifferenza più sconcertante) la sperimentazione dell’impersonalità, il realismo distaccato e privo di emotività, l’impareggiabile maestria che occorre per raccontare il mistero dell’esistenza. Solo alcuni compresero che quella miseria senza splendore poteva essere scritta solo così, senza sconti: sarà Louis Ferdinand Céline a dire di Mac Orlan

Aveva già visto tutto, capito tutto, inventato tutto
  
Nelle centocinquanta pagine di questo testo si riassume l’epopea della letteratura della prima metà del Novecento, di una metà di secolo che è stata attraversata furiosamente dalla prova dell’estrema brutalità umana, dalla violenza e dall’indigenza, testimoniate, raccontate, urlate dalle più belle sperimentazioni artistiche in tutti i campi. 
Quando l’ho riposto dopo averlo finalmente letto, atteso da vent’anni, ho pensato: 

- devo tornare a Parigi e cercare il Lapin Agile; 

- voglio vedere il film “Il porto delle nebbie” del 1938 sceneggiato da Prévert, diretto da Carné e interpretato da Jean Gabin; 

- storicamente siamo di nuovo qui, a rischiare di essere inghiottiti dalla nebbia.


Imperdibile.





*La bettola descritta nel romanzo, il “Lapin Agile” esiste davvero. Era un luogo per indigenti nato con il nome “Cabaret des Assassins” quando ancora sulla collina di Montmartre non c’era il Sacro Cuore e "cabaret" significava solo ritrovo, non luogo di intrattenimento artistico. Sulla facciata agli inizi del secolo fu dipinto dal caricaturista Andrès Gill un coniglio che scappava da una pentola e gli fu cambiato il nome in Au Lapin à Gill. Dopo la guerra la clientela diventò più rispettabile (ma mai ricca) e fu frequentato da personaggi come Modigliani, Picasso, Apollinaire: i personaggi di questo libro richiamano persone realmente esistite che bazzicavano insieme a Mac Orlan intorno al Lapin Agile.

Trovate il locale all’angolo tra rue des Saules e rue saint Vincent.


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