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domenica 2 aprile 2017

Bibliopillola n. 18 Per radici mobili



É complesso, difficile, forse anche delicato parlare di “radici”. Mi riferisco ai luoghi d’origine di ogni individuo, sia reali che culturali: il paese o la città in cui si è nati o cresciuti, le tradizioni che ci hanno insegnato o che ci hanno forgiato, la cultura alla quale riconosciamo una appartenenza.

E’ innegabile che la formazione del sé faccia riferimento a paesaggi, strade, urla nei cortili, campagne o montagne, boschi o borghi marinari, parole e storie raccontate, norme assimilate e regole di vita tramandate, dèi e demoni di religioni e miti popolari. E’ curioso sbrogliare i nodi che queste radici compongono se la vita ti mette a percorrere strade diverse o ti fa interagire con persone che vengono dai mondi più disparati: penso a me stessa, alla mia Puglia che è un coacervo di costumi contadini, di superstizioni di gente di mare, in cui si parlano dialetti che mischiano arabo, francese, lingue dell’est; penso ai miei nonni beneventani (un partenopeo e una mezza Rom), a quelli baresi, uno normanno (rosso di carnagione e alto come un vichingo) e l’altra corvina e con gli occhi nero carbone come un’andalusa (ché abbiamo avuto anche gli spagnoli qui giù). 

Penso a quanto, sebbene si percorrano svariati itinerari, sebbene ci si trasferisca spesso o si viaggi molto, si avverta sempre il bisogno di un ritorno a casa, che sia essa intesa in senso letterale o come un luogo dell’anima in cui ci riconoscersi e continuare a costruirsi. 

Ho scelto questi due titoli come viatico, perché le radici mobili aiutano a guardarsi con più tolleranza e a non farsi irretire da confini troppo netti, come in generale sarebbe il caso di fare quando ci si interroga sulle proprie origini e in particolare in tempi come quelli attuali, che tendono ad una regressione verso i particolarismi e i micronazionalismi. É sempre un bene sottolineare che l’identità è essa stessa frutto di pluralità, che la complessità è una risorsa per il singolo individuo e le genti, che le tessere di questi puzzle storici spesso le rinveniamo scavando altrove.

Questa bibliopillola scaturisce dunque da due libri scritti da pugliesi, in cui le trame riconducono entrambe alla necessità di imparare, nella vita, a radicarsi, sradicarsi, ri-radicarsi nuovamente (il risultato è cacofonico, me ne rendo conto). 

Il che avviene una volta imparato che si porta dentro tutto ciò che serve per rimettere su, ogni volta, casa e se stessi. 


Dirce Scarpello, L’attrazione dei talenti, Les Flaneurs. 


Due storie di donne che si sovrappongono incontrandosi, una pugliese ed una albanese, vite diverse ma affacciate su quella stretta lingua di mare che è l'Adriatico. 
Due donne che soffrono a causa delle loro stesse radici, riconosciute, negate, che le respingono, dalle quali si allontanano: fino a che non intuiscono che non sono (solo) i luoghi da cui nasci a fare ciò che sei. 
E’ sempre necessario ricostruirsi, affidarsi a se stesse, comprendere e coltivare un talento, un proprio modo di essere profondo che ci riconcilia con il mondo ovunque si decida di viverlo: un habitus che occorre cucire e indossare, che riconosciamo come ciò che sappiamo fare bene e ci piace, e che diventa insieme capacità d’ascolto e di contatto. Per tirare fuori un’idea, un progetto di sé che guida e sorregga, è imprescindibile ascoltare ed ascoltarsi. Farsi fare le domande, azzardare le risposte. 

Ho apprezzato molto la bella riflessione sulla comunicazione con gli adolescenti, che nella narrazione emerge dal rapporto tra una delle due protagoniste e la giovane nipote: se solo ogni tanto prestassimo davvero l’orecchio, porgessimo una mano sotto forma di domanda, abbattessimo quelle convinzioni inattaccabili dentro le quali ci siamo murati a costo di non intaccare una presunta felicità giornaliera.

Entrambe le donne, così lontane tra loro, condividono la scoperta che occorre imparare a tornare sempre su sé stesse, a non chiudere mai definitivamente le porte, perché anche i ritorni possono essere nuove partenze; imparano che riconoscersi significa anche abituarsi a guardare immagini diverse in specchi distorti, perché si cambia e cambiano le cose e le persone intorno a noi; imparano che “radici” possono anche essere gli incontri casuali e fortuiti.
E i talenti, come i dolori, si attraggono e si riconoscono. 

Una scrittura aggraziata e colta, una lettura che fa da specchio, che muove i personaggi fra il capoluogo, le masserie brindisine e il salento, luoghi di origine e adozione dell'autrice.


Davide Grittani, E invece io, Robin Edizioni 

“In alcuni casi occorrono i titoli di coda per ricordarsi di essere ancora vivi”: la definizione perfetta per il protagonista di questo romanzo. Viviamo innumerevoli The End nel corso delle nostre esistenze e ci sorprende che siamo capaci di rimettere insieme pezzi e cocci, ogni volta. Anche se ad un certo punto può accadere che ciò che ne venga fuori non corrisponda più a noi stessi.

Un giornalista settentrionale deluso dalla sua professione e con in mano un bilancio non esaltante del proprio mezzo secolo di vita, tra un matrimonio fallito e una incapacità esistenziale di definirsi, decide una emigrazione al contrario: accetta il trasferimento da Borgo Ticino, frazione di Pavia, in una piccola redazione meridionale. E come se avesse bisogno di “scendere” ulteriormente alla ricerca di qualcosa che più in fondo non potrebbe stare, progetta un viaggio in Sudamerica come regalo di rappacificazione con se stesso per festeggiare (o forse no) i suoi cinquant’anni. 
Fra il Tavoliere delle Puglie e la pampa argentina si ritroverà nudo, di fronte ad un vaso di Pandora definitivamente scoperchiato, in una resa dei conti senza più certezze e punti di riferimento, tradito dalle persone che riteneva più vicine e da una professione che gli si rivolta contro. 

Un’odissea tra l’epica e la gag, un antieroe sballottato tra sirene-calunnie e ciclopi che gli portano via tutto, che suscita immediatamente simpatia ed empatia; una spietata critica ad un giornalismo che si è mortalmente prostituito ignorando la verità dei fatti, ai luoghi comuni su un meridione brutto, sporco e cattivo, ad una politica che si autoproclama “quella ancora pulita” sulla pelle dei detrattori massacrati a suon di scoop scandalistici. 

In un sud che è luce spietata, a contatto con la terra, le parole che possono fissare e uccidere vengono sostituite dai gesti, un modo di esprimersi che offre interpretazioni ampie, ariose, come il continuo gesticolare delle mani; in un sud che ancora vende sogni si scopre l’unica verità possibile, che le sconfitte e le sofferenze regalano la bellezza del perdere che ci ricorda la forza dell’umiltà. 
Perché sempre da lì si deve ripartire, dal basso, anche lasciando ogni tanto i conti in sospeso, senza necessariamente determinarsi, riconoscersi in qualcosa di definitivo, attribuirsi ruoli, etichette, luoghi.

Scrittura correttissima, pulita e densa allo stesso tempo. Si è spinti ad un ritmo di lettura veloce per la prosa accattivante (alcuni tratti sono esilaranti) ma ogni tanto ci si deve fermare a riflettere sulle ultime righe. Una penna consapevole e leggera per un racconto che ha quasi del filosofico. 


Bello sapere, mentre si scrive, che per la prima volta il libro di un foggiano ("sono nato a Foggia, a Foggia vivo e sempre qui torno" cit.) è iscritto al Premio Strega 2017.

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