David Foster Wallace, Infinite Jest, Einaudi
Più che una lettura, Infinite Jest è un’esperienza: un
mese trascorso in un universo psichedelico e psicotico, distopico ma
terribilmente vicino ad una realtà che
DFW si è inventato vent’anni fa ma profeticamente simile alla nostra,
dipendente da Internet e da un intrattenimento popolare condiviso 24h su 24. Un
universo che ha riavviato il calendario dall’anno in cui è iniziata una
sponsorizzazione commerciale per la quale la Statua della Libertà al posto
della fiaccola tiene sollevato un prodotto che sponsorizza perfino il tempo e
le vite degli individui americani, cambiato ogni primo gennaio da alcuni uomini
coraggiosi con tanto di scarpe chiodate e gru; un’America che ha occupato un
continente creando una nuova e strana
configurazione territoriale, costruita su città patinate e tecnologicamente
all’avanguardia e sobborghi urbani terribili in cui si vive in atmosfere che
ricordano moltissimo Trainspotting. Una “interdipendenza continentale”
dall’inquietante acronimo di ONAN, un’America riconfigurata, la cui bandiera è
un’aquila con un sombrero e la foglia d’acero in bocca. In cui un’intera regione
sottomessa, il Canada, viene usata come immondezzaio, poiché enormi catapulte sparano
quotidianamente i rifiuti di questa nuova nazione pulita e sponsorizzata al di
là dei confini, in una Concavità radioattiva ospitante individui geneticamente
modificati e terroristi separatisti: cellule però spesso in contrasto tra loro,
che più che resistere rappresentano patriottismi egoistici e nazionalistici
evidentemente non ancora superati. Una
società in cui esiste un circuito di trasmissione in rete di video di
intrattenimento su modernissimi visori: una programmazione che sembra offrire
libertà di scelta ma che in realtà è un ingabbiante monopolio tra case di
produzione e hardware houses; in cui i ragazzi,
dai primi anni dell’infanzia fino all’adolescenza, vivono in college sportivi
in cui vige un agonismo esasperato (veicolato delle sponsorizzazioni), abitando
accademie modernissime e ipertecnologiche che però nascondono condizioni
psicologiche da campo militare, nelle quali si sopravvive ad allenamenti intensivi
solo con l’uso continuo, massiccio e sistematico di droghe. In cui anche i più
piccoli possono sottrarsi solo una volta l’anno allo schema da lager della
giornata allenamento/studio/allenamento grazie ad un gioco di ruolo (una sorta di Risiko
in 3D combattuto nei locali e nei giardini degli istituti), che sfoga istinti
repressi talmente feroci da risultare anche letale.
Una società che d’altronde è stata costruita
da un compulsivo, un cantante neomelodico diventato Presidente, affetto da
mille ossessioni: in un’epoca post-sovietica, post-jihad, dove non ci sono più
minacce esterne concrete e catalizzatrici, il leader della nazione è
ossessionato da rifiuti e sporcizia, e fa del rinnovamento americano una
banalissima questione estetica.
Questa dovrebbe
essere pressappoco la struttura narrativa di base del romanzo, e ho detto ben
poco delle 1200 pagine che lo compongono e non credo di riuscirci affatto.
Anzitutto perché i molti scenari, i collegamenti, le vicende dei personaggi che
si intersecano tra l’ETA, le città dell’Onan, le sedi di cliniche di
disintossicazione o di alcolisti anonimi si ricompongono un po’ alla volta, in
un labirintico andirivieni temporale che ricopre l’arco di una decina d’anni,
raccontando anche di generazioni precedenti;
molte cose mi si sono chiarite solo intorno alla metà del libro, e per
comprendere davvero (… davvero?) cos’è questo “Infinite Jest” mi sono dovuta
ritrovare ansimante intorno alla pagina 1000.
Una famiglia che riunisce i protagonisti principali traina tutti i livelli
del racconto: sono gli Incandenza.
Il padre ex-sportivo e poi regista
d’avanguardia, la madre manager dell’Accademia Tennistica (l’ETA, appunto) e i
loro tre figli: Orin, violentemente traumatizzato dalla figura del padre; Hal per
molti aspetti chiave interpretativa di aspetti significativi delle vicende,
diciassettenne promessa del tennis agonistico; infine, Mario, terribilmente
deforme fin dalla nascita, che paradossalmente è il componente più “stabile”, mentalmente
ed emotivamente, di un gruppo familiare che spesso rasenta l’horror, sotto una
parvenza di perfetto nucleo condiviso di amore e impegno. Perché mentono:
tutti, continuamente, su qualsiasi aspetto della loro esistenza, sul passato,
sui sentimenti, sull’educazione, al punto che le loro bugie sono ormai talmente
vicine al cuore della verità da non capire più che sono bugie.
A contorno,
almeno una decina di personaggi ricorrenti che srotolano e annodano le
molteplici evoluzioni della trama.
Che è spesso fatta esplodere da lunghe e
monografiche riflessioni di qualsiasi tipo, che esplorano qualsiasi tematica, e
mai in maniera superficiale ma sempre approfondita con competenze quasi saggistiche
ed una scrittura che pur essendo così esaustiva non è mai noiosa. Ci si può
fermare per decine di pagine a leggere le proprietà di ogni tipo o famiglia di
droga, dalle sintetiche alle naturali, passando per quelle veicolate
farmaceuticamente o reperibili in lontanissimi luoghi del mondo; ci si può
fermare a leggere incantati la minuziosa descrizione di un set di tennis, anche
se non ci si è mai capito nulla di questo sport o addirittura ci è risultato
fino a quel momento antipatico. Ritrovandosi competenti in materia di strategie
di gioco, tecniche di battute o di costruzione di racchette, competizioni e
tornei, tanto che da quest’anno ho deciso di seguire Wimbledon.
Ancora all’ultima
pagina, dopo un mese di lettura, non mi
capacitavo della sua straordinaria bravura nel rendere narrativamente qualsiasi
ambito di discussione (anche il meno vicino a qualsiasi conversazione normale) accattivante
e appassionante, utilizzando gli stili più diversi, dalle discussioni a
larghissimo respiro, riflessive e colte, ai dialoghi ritmati, frenetici, senza
punteggiatura.
E non mi soffermo, per mille motivi, sulle pagine più belle,
quelle nelle quali si vede il riflesso sbiadito e sofferto di David Foster
Wallace, nelle quali nemmeno si racconta ma si testimonia il “Disagio” di una
società malata, continuamente in analisi, in cui la volontà individuale è
azzerata e si soccombe alla Dipendenza, dall’alcool, dalle droghe, dalla
violenza.
Pagine affascinanti e agghiaccianti, costruite su laceranti monologhi
interiori, su frammenti di ricordi, personalità devastate e spaventate che
cercano disperatamente di venirne fuori.
A tratti dolorose ma anche
stupefacenti, profonde, spaventosamente coinvolgenti, perché i livelli di
esplorazione dell’umano, di tutto ciò che è umano, sono incredibilmente complessi.
Aleggia, per tutte le pagine del libro,
una Colpa: da espiare, da alleviare, da dimenticare, da pagare. In un mondo nel
quale, invece, non ci sono più né cause né scuse, che azzera volontà e
responsabilità, che ha ideato un meccanismo perfetto per cercare sempre negli
altri gli artefici della nostra rovina, consentendoci così di trasmettere la
disfatta a tutti coloro che ci circondano.
Solo poche righe, infine (ma non svelo nulla di
rilevante), su Infinite Jest: è il
nome di un video di cui si parla fin dalle prime pagine, una fonte di
divertimento gravemente sviante, una visione che suscita un piacere talmente
intenso da essere mortale. Chi ha iniziato a vederlo non è riuscito più a
staccarsene, spegnendosi in uno stato catatonico irreversibile.
L’ultimo lavoro di un regista folle, del capostipite degli Incandenza, che diventa un
oscuro oggetto del desiderio per molti.
Ma forse è tutto uno scherzo.
O forse no.
Nota*
In realtà non sono nemmeno lontanamente riuscita a
descrivere ciò che significa trascorrere un mese dentro Infinite Jest: non potevo
dire più di così eppure è come se non avessi detto nulla.
E non provo nemmeno a trasferire emotivamente quanto può coinvolgere.
Posso solo dire che ora ho capito perché lo hanno definito un libro
geniale.
Nota della nota**
Dimenticavo: DFW costringe ad un continuo rimando,
durante la lettura, alle trecento pagine finali di note, assolutamente imprescindibili,
nonostante il continuo slogarsi di polsi su un tomo da sorreggere che pesa più
di un chilo. Eppure in quelle note si chiariscono, si approfondiscono, si
interpretano, si recuperano intere vicende assolutamente funzionali al contesto
della trama, anche se non in quella precisa pagina.
Per cui, sappiatelo, non si possono saltare.
Nemmeno una.
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