Andrés Neuman, Frammenti della
notte, Ponte alle Grazie
Neuman mi aveva già colpita con “Le cose che non facciamo”, racconti
che rivelano l’impressionante capacità di scomposizione della sua scrittura,
una specie di occhio di bue che mette in luce dettagli e aspetti minimi
dell’esistenza rischiarandola spietatamente; questo libro (il suo primo
romanzo, redatto quindici anni fa) è strepitoso.
Roberto Bolano ha scritto che ne è stato “soggiogato” e “ipnotizzato”:
mica uno qualsiasi.
E l’effetto è precisamente quello: un’esperienza ammaliante,
emozionante ma senza eccessi, di una coinvolgimento quasi pudico. Neuman ha la
rara capacità di rendere lirica una scrittura asciutta e senza orpelli; una
trama disincantata, a tratti rassegnata, assume una potenza narrativa incredibilmente
empatica.
Demetrio Rota è il protagonista: un protagonista in bianco e nero, un
netturbino anonimo e senza storia che vive una condizione quotidiana
perennemente intontita dalla mancanza di sonno (i turni di lavoro iniziano molto
prima dell’alba e finiscono nella tarda mattinata). Una vita piatta condivisa
con un inconsapevole (e per questo molto più felice di lui) collega/amico, in
cui l’unica occasione di svago è il puzzle serale che l’uomo si concede prima
di mettersi a dormire nello squallido appartamentino da single.
Ogni sera, tutte le sere, unisce i frammenti: tessere di paesaggi che
gli ricordano la citta natia (Bariloche, che è anche il titolo originale del
romanzo), una località perduta in mezzo ai boschi dove ha vissuto forse l’unica
felicità che un’esistenza parecchio grama gli ha concesso, un amore giovanile ancora
rimpianto. E ricompone cieli e alberi così come raduna ricordi e pezzi della
propria vita già esausta, così come al lavoro nelle asfittiche aurore di Buenos
Aires raccoglie i rifiuti scartati da altri esseri che palpitano e pulsano
intorno a lui. Quasi scansandolo. Non c’è riconoscimento tra lui e la città,
non gli appartiene, abita ancora un’adolescenza
che gli ha accordato un fugace amore, quel tanto che basta per sapere
che esiste. Eppure arriva sempre un momento in cui le monotonie che salvano,
perché regalano un finto ordine al quale aggrapparsi, si rompono: il momento in cui le tessere non combaciano. In cui
scompaiono i pochi punti di riferimento, in cui un tradimento inaspettato fa
crollare il cielo cartonato che aveva costruito per ripararsi dalla pioggia: e
comprende che non ha fatto altro che restare ingabbiato in un passato, che la
sua vita si è rotta definitivamente molto tempo prima.
Non voglio dire altro
sulla storia; aggiungo che mi ha fatto tanto pensare sulla necessità di ognuno
di noi di tenere insieme i propri pezzi.
Abbiamo alle spalle trascorsi che
innegabilmente sono parte di ciò che siamo, con i quali siamo costretti a fare
sempre e comunque i conti. Spesso tuttavia non riusciamo a volgere il capo in
avanti, a riprendere la forza e la volontà per progettarci, rilanciarci,
rimetterci in discussione. Siamo stanchi, o impantanati nel troppo già vissuto,
incapaci di credere che ci si possa stupire ancora: e limitiamo gli sforzi ad
evitare ulteriori danni, e impariamo a convivere con gli spettri diafani dei
tempi che son stati.
Provando la sensazione di essere stati ormai scacciati
dalla propria esistenza, come reietti: “se non posso vivere come voglio, allora
preferisco non pensare che c’è un’altra vita”.
Eppure, forse non è così necessario che il puzzle si ricomponga
sempre alla perfezione. Non è indispensabile che tutti i frammenti si
incastrino esattamente tra loro: anche una visione d’insieme incompleta può
rappresentare qualcosa, una promessa non
è per forza qualcosa di intatto.
A quei tempi non lasciavo mai i puzzle fatti dopo averli completati, mi sembrava non avesse senso, ora invece sento il bisogno di avere qualcosa che non sia rotto
Anche se ci scomponiamo, in ognuno dei pezzi c’è parte di noi, anche
in quelli in cui gli angoli si sono scollati e non possono più unirsi ad altri.
L’esattezza della vita a un certo punto si sporca: ma siamo fatti anche del più
piccolo dei nostri sbagli.
Un libro davvero umano, che mi ha profondamente toccato.