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mercoledì 9 agosto 2017

Bibliopillola n.22: ricostituenti indispensabili, i "Classici"

Joseph Conrad, All’estremo limite, Quodlibet Compagnia Extra, 2017 


 Mi ero detta qualche giorno fa "ho voglia di leggere un classico"; e quando ho chiuso, con grande, grandissima soddisfazione, l'ultima pagina di questo libro, ho saputo con certezza di averne sfogliato uno. 
 La questione adesso è provare a capire cos'è un classico. 
 Spolverando reminiscenze scolastiche e universitarie ho ricordato quanto sia rischioso azzardare una definizione, perché si è di fronte ad un concetto che presuppone qualcosa di oggettivo in maniera indiscutibile, che richiama una tradizione consolidata di canoni, criteri e valori, estetici e culturali. Il che significa, come ha sottolineato una recente critica letteraria americana, che ciò che viene stigmatizzato come classico è solo il prodotto della cultura dominante di un luogo specifico in un periodo preciso (tant'è che prima di Poe, Steinbeck e Roth i ragazzi yankee studiano Omero, Virgilio e Shakespeare, tributo ad una classicità letteraria occidentale abbastanza imposta e poco amata).
E vabbè, anche nella vecchia Europa un paio di secoli prima qualcuno aveva definito la cultura “sovrastruttura”, quindi ci si infila in una querelle di difficile risoluzione. 
 Pare che si debba scegliere cosa definire classico, insomma. 
 Ma come si può determinare che un libro sia indiscutibilmente e in assoluto bello? 
Conrad mi ha offerto una sensazione che non provavo dai tempi del liceo, grazie anche alla bella edizione Quodlibet e alla magistrale traduzione (pubblicata per la prima volta) di Gianni Celati: quella di accomodarmi in un testo che richiede una lettura piena, pacata e profonda, una scrittura che sospende tutto intorno a sé e al libro, che abbisogna di tempi lunghi per seguire l'ampio respiro delle frasi costruite parola per parola. 

 Mi è venuto in soccorso Italo Calvino:

 È classico ciò che tende a relegare l'attualità al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo di questo rumore di fondo non può fare a meno.
 È classico ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove l'attualità più incompatibile fa da padrona. 

 Questo libro crea una realtà parallela grazie all'incomparabile perizia stilistica di rendere minuziosamente paesaggi, colori, odori, suoni; e a quell'inarrivabile capacità di scandagliare l'animo umano senza creare scompiglio in superficie. L'apparentemente placida navigazione fluviale del piroscafo Sofala, dalla Malesia alla Birmania, tra fango e mangrovie, lascia presagire le atmosfere de La linea d'ombra (scritto quindici anni dopo): l'anziano capitano Whalley, uomo integro, massiccio, una solidità di fisico e di principi, rappresenta la fine dell'epopea coloniale nell'immobile trasformazione di un oriente anacronistico. Signorile e cortese, crede socraticamente che chi compia il male lo faccia solo per ignoranza del bene: è assolutamente incapace di concepire la cattiveria deliberata, di scorgere doppi fini o magheggi alle proprie spalle. Convinto di una sorta di immortalità che la sua probità dovrebbe garantirgli, si ritrova invece e all'improvviso travolto da un dramma che non saprà affrontare. 
Spiazza (oggi) leggere di tanta fiducia nell'umanità, così come sorprende un'interpretazione colonialista fuori da logiche esclusivamente commerciali, diretta ad una civilizzazione (non si comprende quanto realmente ingenua) volta a liberare "individui stupidi" dalla possibilità di diventare malvagi. E invece intorno al capitano ci sono arrivisti, gente che vuole fare strada o arricchirsi ad ogni costo, sleali e corrotti, premonizioni del secolo appena iniziato. E quando si consuma la tragedia che abbatte ogni sua certezza essa assume l'amaro sapore di una nemesi divina, un mondo intero che scompare nel buio di tempi che furono. 
Contemplare la rovina e la solitudine di un uomo induce a riflettere sulla propria esistenza: a distanza di più di un secolo, scenari e luoghi diversi e ormai lontani diventano specchi più nitidi della stessa contemporaneità. 
Proprio perché salta agli occhi la lontananza di certe dinamiche sociali. 
Come se l'uomo fosse sempre e ancora uomo, nonostante o tuttavia si guardi al passato come un'epoca superata in funzione del progresso, dell'evoluzione e del miglioramento. 
 Il finale è commovente, come in un film d'altri tempi, di quella pietà che, avendo perso, si ritrova solo in un classico. 

 Il «tuo» classico è quello che non può esserti indifferente e che ti serve per definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui. 

 A proposito, grazie, Italo. 

 Le citazioni sono tratte da I. Calvino, Perché leggere i classici, Oscar Mondadori, Milano, 1995

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