Su tutti i social, in questi giorni, è rimbalzata la notizia
della scomparsa del grande Gabriel Garcia Marquez. Il tam tam mediatico ha
contribuito ad un proliferare di necrologi, recensioni, testimonianze di tutti
coloro che, in un modo o nell'altro, almeno una volta nella vita, sono passati
per Macondo. Che è però una città che non esiste, nata da quei contorti segni
vergati da una penna (che in fortunati casi come questo si trasforma in
bacchetta magica) che hanno fondato dal nulla un villaggio nel cuore della
foresta colombiana.
Macondo è il mondo stesso, magico e amaro allo stesso tempo,
contraddittorio, rigoglioso e arido, colorato e squallido, una città di specchi fra i quali c’è un
continuo rincorrersi fra ombre fiabesche e fantastiche e personaggi e
situazioni fin troppo reali, fra spiriti di gente già vissuta e uomini che
lottano in carne e ossa, una realtà a mezz'aria, insomma, sospesa, una bolla
fluttuante al di sopra delle aspirazioni, dei sogni, delle delusioni
dell'umanità.
Macondo è il luogo di nascita di chiunque ami leggere. A prescindere dal fatto che si sia mai letto Cent'anni di solitudine, romanzo controverso, amato e stroncato in ugual misura da quasi mezzo secolo. E se mi è venuta voglia di prescrivere questa generica bibliopillola, adatta un po' per chiunque legga, è proprio perché, appartenendo alla schiera di chi, ahimè, amava “Gabo”, ne sto patendo, appunto, la mancanza.
Macondo è il luogo di nascita di chiunque ami leggere. A prescindere dal fatto che si sia mai letto Cent'anni di solitudine, romanzo controverso, amato e stroncato in ugual misura da quasi mezzo secolo. E se mi è venuta voglia di prescrivere questa generica bibliopillola, adatta un po' per chiunque legga, è proprio perché, appartenendo alla schiera di chi, ahimè, amava “Gabo”, ne sto patendo, appunto, la mancanza.