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lunedì 8 agosto 2016

L'uomo che cadde sulla Terra, Walter Tevis


Solitudini di tutti i pianeti: bugiardino cosmico.

"Non è necessario"
"Che cosa non è necessario?"
"Venire da Marte. Immagino c'è anche lei si sia sentito solo abbastanza spesso, dottor Bryce. E che si sia sentito alienato. E viene da Marte, lei?"
"Non credo"
"Da Philadelphia?"
Bryce sorrise. "Da Portsmouth, Ohio. Rispetto a qui, è più lontano di Marte"


I libri per caso. Quelli che cadono dalle mensole e ti chini per raccoglierli, quelli che ti regalano, quelli che sfili casualmente da uno scaffale in libreria. Quest'ultimo appartiene a questa classe. Un libro del 1963 sfegatatamente  caldeggiato dalla libraia amica fan di David Bowie (nella trasposizione cinematografica di questo romanzo è lui a interpretare il diafano personaggio principale). Mi ci sono avvicinata sospettosa per il timore fosse un racconto di fantascienza un pó datato, quindi scontato: invece si è rivelato una bella sorpresa, che azzarderei a definire un classico fuori da etichette di genere, forse uno di quei libri necessari, a prescindere. Dopo poche pagine ci si sente vicini al malinconico Newton, alla sua misteriosa storia, al suo esilio e al suo oscuro progetto. Una figura davvero unica, di sconcertante spessore, metafora  della condizione esistenziale dell'uomo moderno. La scrittura, potentemente descrittiva, disegna luoghi e paesaggi, evoca con precisione i tratti dei volti e dei gesti, racconta di un'America (quella immaginata è abbastanza fedele ai nostri reali  anni Ottanta) alle soglie di una indefinita catastrofe politica e civile, la vigilia di un conflitto inevitabile per l'ipotizzata estensione della guerra fredda (periodo in cui Tevis scriveva).  Spietata la critica all'ipocrita middle class americana, tanto fiera e sfacciata quanto in realtà sperduta e a disagio in un mondo del quale contribuisce  a creare la facciata ignorandone con cura i meccanismi più profondi. Originale anche il leit motiv che lega i tre personaggi principali, l'extraterrestre, la donna che casualmente (ma forse no) diventa la sua governante e l'ingegnere chimico che scopre la sua reale identità e la natura dell'immenso progetto al quale ambisce: la passione per l'alcool. La bottiglia di gin che solleva i loro animi tormentati dall'immensa tristezza che li accompagna e li accomuna diventa un salvagente, l'oblio che si concedono per sentirsi al sicuro quando il bisogno di sincerità, di essere se stessi emerge prepotente. Nonostante sin dalle prime pagine sia chiara l'aliena  provenienza del protagonista, lo sviluppo della trama riserva invece un finale niente affatto scontato e sicuramente toccante. 
Terminata l'ultima pagina si resta un pó attoniti, storditi dalla bruciante consapevolezza di una inesorabile alienazione, da noi stessi, dagli altri, dal mondo che viviamo. 
Siamo tutti marziani. 

"E tutt'a un tratto, guardando di nuovo la stanza con le grigie pareti anonime e l'arredamento banale, si sentì disgustato e stanco di quel posto dozzinale ed estraneo, dunque la cultura sfacciata, chiassosa, sensuale e priva di radici, di quell'aggregato di scimmie intelligenti, pruriginose ed egoiste, volgari e spensierate, mentre la loro effimera civiltà, come il ponte di Londra della canzoncina dei bambini, stava crollando, stava crollando insieme a tutti gli altri ponti".



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