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sabato 16 settembre 2017

Bugiardini: fra le letture di settembre

Quattro titoli fra i libri letti in questo caldo avvio di autunno che meritano un post. 
Molto diversi per stile, periodo, tematiche ma tutti consigliatissimi, se dovessero garbarvi.


Per viaggiare su un tappeto volante: dall’alto le distinzioni sono meno visibili
Mathias Enard, Bussola, edizioni e/o













Un gran bel viaggio, erudito e colto, scritto come le memorie di una vita contemporanea, con la struggente malinconia di un uomo che ha inseguito se stesso e l'amore seguendo una bussola che segna al posto del Nord un Est meraviglioso. Un musicologo austriaco orientalista, che ripercorre la sua ricerca di commistioni europee ed orientali a partire dai grandi compositori della Mitteleuropa, che si innamora, in un incantevole viaggiare tra Turchia, Siria, Iraq, di una studiosa francese. Un amore ideale anche se nutrito da mille interessi comuni, da notti nel deserto, fra le vestigia della grande Istanbul degli inizi del Novecento, gli insediamenti archeologici di Palmira, Aleppo e Raqqa non ancora distrutte e Teheran precedente alla rivoluzione islamica, insieme ai soggiorni a Vienna, nelle città balcaniche, perché tutte le città europee sono porte dell'Oriente. Un caleidoscopio di suggestioni, suoni, voci, culture; la musica sempre come sottofondo a esplorare la commistione profonda tra oriente e occidente, un cosmopolitismo profondo e immancabile per la millenaria frequentazione, ucciso dalla rispettiva curiosità culturale trasformatasi in volontà di predare, sopraffare. Profonde le riflessioni sulle spaccature islamiche oggi, sui combattenti dell'Isis che bruciano o distruggono elementi occidentali bollati come non islamici quando invece è proprio dalle loro città carovaniere e dai loro deserti che i primi europei hanno tratto spunto, accanendosi con ciò che in fondo proviene da loro. Occidentali che hanno acceso la jihad già durante la prima guerra mondiale, per garantirsi rinforzi coloniali negli eserciti, complici del massacro siriano. Alla fine della lunga notte insonne del protagonista, che srotola la sua vita, sapremo che oriente e occidente sono costruzioni dell'immaginario, a cui tutti non solo attingono ma sempre aggiungono. Come nell'amore, è impossibile la fusione ma si ama in una distanza che richiama sé e l'altro. Bellissime le pagine storiche, gli innumerevoli richiami alla seconda metà del Novecento tutta, quando la costruzione di un'identità europea come mosaico di nazionalismo ha cancellato le differenze e le molteplicità  che ci univano. Ha prevalso la dominazione, la sopraffazione, come spesso accade in amore. Una nota amara, alla fine di 400 pagine che sono un tappeto volante, è la constatazione che si è perso, per paura, ignavia, codardia, il gusto del viaggio erudito, non turistico, soppiantato dalla ricerca in rete, dai giri virtuali, dalla documentazione visualizzabile con un click, senza doverci soffiare via la polvere.


Per le prime serate in cui il tramonto piomba addosso troppo velocemente
Joe R. Lansdale, In fondo alla palude, Fanucci








Ogni volta che leggo Lansdale si apre un varco temporale che mi riporta indietro alla mia adolescenza, quando clandestinamente alternavo ai classici della letteratura i primi libri di Stephen King o Dean Koontz, narrativa tanto ingiustamente sottostimata sulla quale ci perdevo le nottate e il sonno. Sono passati anni dalla lettura del ciclo di Hap&Leonard e volendo recuperare  ho scelto questa bella edizione Fanucci. Fin dalle prime pagine ci si ritrova addosso la polvere del Texas, respirando l’atmosfera semplice e rude dell’America degli anni Trenta, quella di campi e piantagioni lontane dalle grandi città, contadini la cui vita ruota intorno a piccoli centri in cui si va ancora a cavallo e le botteghe dei barbieri rappresentano l’unico luogo in cui raccogliere notizie, storie e voci. I protagonisti sono due ragazzini in bilico tra le paure di un’infanzia sempre restia a crescere e i mostri reali che la vita para davanti; sono gli anni della depressione e del Ku Klux Klan, dei conflitti irrisolti tra bianchi e neri, degli orrori di una guerra lontana la cui eco raggiunge però le fattorie e i campi di cotone, la mancanza di speranza in un futuro oscuro come i volti della gente di colore ancora vittima di un razzismo ottuso e feroce. In effetti e con il senno di poi, quando si diventa inesorabilmente e definitivamente adulti,  si rimpiangono il mostro della palude e l'uomo nero, fantasie orrorifiche di un buio che è solo la parte sconosciuta di un mondo da esplorare o una stanza con la luce spenta. La consapevolezza del male di cui è capace un uomo è mille volte peggio delle creature che popolano le fantasie da bambini.


Per frequentare più vite possibili
Julio Cortazar, Tanto amore per Glenda, Guanda








10 racconti tirati fuori dalle pieghe dell'esistenza, una scrittura che crea realtà parallele con l'eleganza di chi fonde sapientemente immaginazione e quotidiano, cercando risposte al destino, ai perché, alle angosce. Dimensioni che si incrociano, punti di vista altri, simmetrie nascoste, comunicazioni impossibili: questo fa la letteratura. Spiega e dispiega la realtà; la destruttura per ricostruirla. Brevi storie a cercare punti di vista nuovi, perché c’è differenze nel mettersi da un lato o dall’altro dello specchio. Protagonisti e narranti si scambiano, si fondono e confondono, in un equilibrio aggraziato che solo la penna del Mago riesce a sostenere, in bilico su un filo. E allora le donne e i gatti hanno in comune lo stesso sguardo indecifrabile, i vicini non sono ciò che sembrano, certi cortocircuiti ci mettono in comunicazione con chi non c'è più o con chi sta vivendo la nostra stessa situazione altrove. In un doloroso tentativo di avvicinare la Parigi nella quale si è rifugiato e la Buenos Aires torturata dalla dittatura, Cortazar si conferma il grande genio capace di cambiare il mondo con le parole. 


Per un pomeriggio ai confini della realtà
Daphne du Maurier, Gli uccelli, Sellerio








Due incredibili racconti di una signora inglese del Novecento musa ispiratrice di Hitchcock. Un turbamento mai eccessivo ma sempre presente sin dalle prime righe, la sapiente capacità di creare un sottile senso di irrequietezza senza caricare orrorificamente, la paura instillata nel lettore pian piano, in un crescendo di inaspettati colpi di scena pagina dopo pagina. Una tensione tenuta sempre al limite, cosa non facile se si gioca con racconti brevi, chiusi in poche pagine.
"Le lenti azzurre" si svolge in una claustrofobica camera d'ospedale, dove una giovane donna temporaneamente cieca attende che le vengano tolte le bende affidandosi a suoni e impressioni. Il recupero della vista le mostrerà una realtà inaspettata. 
"Gli uccelli" è la storia di un assedio e del tentativo prima incredulo poi disperato di un contadino di barricarsi con la sua famiglia in una casa isolata sulla scogliera inglese, contro un incomprensibile, disumano e spietato attacco. 

120 pagine di pura inquietudine. 


Buone Letture
Emma&Valeria

mercoledì 9 agosto 2017

Bibliopillola n.22: ricostituenti indispensabili, i "Classici"

Joseph Conrad, All’estremo limite, Quodlibet Compagnia Extra, 2017 


 Mi ero detta qualche giorno fa "ho voglia di leggere un classico"; e quando ho chiuso, con grande, grandissima soddisfazione, l'ultima pagina di questo libro, ho saputo con certezza di averne sfogliato uno. 
 La questione adesso è provare a capire cos'è un classico. 
 Spolverando reminiscenze scolastiche e universitarie ho ricordato quanto sia rischioso azzardare una definizione, perché si è di fronte ad un concetto che presuppone qualcosa di oggettivo in maniera indiscutibile, che richiama una tradizione consolidata di canoni, criteri e valori, estetici e culturali. Il che significa, come ha sottolineato una recente critica letteraria americana, che ciò che viene stigmatizzato come classico è solo il prodotto della cultura dominante di un luogo specifico in un periodo preciso (tant'è che prima di Poe, Steinbeck e Roth i ragazzi yankee studiano Omero, Virgilio e Shakespeare, tributo ad una classicità letteraria occidentale abbastanza imposta e poco amata).
E vabbè, anche nella vecchia Europa un paio di secoli prima qualcuno aveva definito la cultura “sovrastruttura”, quindi ci si infila in una querelle di difficile risoluzione. 
 Pare che si debba scegliere cosa definire classico, insomma. 
 Ma come si può determinare che un libro sia indiscutibilmente e in assoluto bello? 
Conrad mi ha offerto una sensazione che non provavo dai tempi del liceo, grazie anche alla bella edizione Quodlibet e alla magistrale traduzione (pubblicata per la prima volta) di Gianni Celati: quella di accomodarmi in un testo che richiede una lettura piena, pacata e profonda, una scrittura che sospende tutto intorno a sé e al libro, che abbisogna di tempi lunghi per seguire l'ampio respiro delle frasi costruite parola per parola. 

 Mi è venuto in soccorso Italo Calvino:

 È classico ciò che tende a relegare l'attualità al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo di questo rumore di fondo non può fare a meno.
 È classico ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove l'attualità più incompatibile fa da padrona. 

 Questo libro crea una realtà parallela grazie all'incomparabile perizia stilistica di rendere minuziosamente paesaggi, colori, odori, suoni; e a quell'inarrivabile capacità di scandagliare l'animo umano senza creare scompiglio in superficie. L'apparentemente placida navigazione fluviale del piroscafo Sofala, dalla Malesia alla Birmania, tra fango e mangrovie, lascia presagire le atmosfere de La linea d'ombra (scritto quindici anni dopo): l'anziano capitano Whalley, uomo integro, massiccio, una solidità di fisico e di principi, rappresenta la fine dell'epopea coloniale nell'immobile trasformazione di un oriente anacronistico. Signorile e cortese, crede socraticamente che chi compia il male lo faccia solo per ignoranza del bene: è assolutamente incapace di concepire la cattiveria deliberata, di scorgere doppi fini o magheggi alle proprie spalle. Convinto di una sorta di immortalità che la sua probità dovrebbe garantirgli, si ritrova invece e all'improvviso travolto da un dramma che non saprà affrontare. 
Spiazza (oggi) leggere di tanta fiducia nell'umanità, così come sorprende un'interpretazione colonialista fuori da logiche esclusivamente commerciali, diretta ad una civilizzazione (non si comprende quanto realmente ingenua) volta a liberare "individui stupidi" dalla possibilità di diventare malvagi. E invece intorno al capitano ci sono arrivisti, gente che vuole fare strada o arricchirsi ad ogni costo, sleali e corrotti, premonizioni del secolo appena iniziato. E quando si consuma la tragedia che abbatte ogni sua certezza essa assume l'amaro sapore di una nemesi divina, un mondo intero che scompare nel buio di tempi che furono. 
Contemplare la rovina e la solitudine di un uomo induce a riflettere sulla propria esistenza: a distanza di più di un secolo, scenari e luoghi diversi e ormai lontani diventano specchi più nitidi della stessa contemporaneità. 
Proprio perché salta agli occhi la lontananza di certe dinamiche sociali. 
Come se l'uomo fosse sempre e ancora uomo, nonostante o tuttavia si guardi al passato come un'epoca superata in funzione del progresso, dell'evoluzione e del miglioramento. 
 Il finale è commovente, come in un film d'altri tempi, di quella pietà che, avendo perso, si ritrova solo in un classico. 

 Il «tuo» classico è quello che non può esserti indifferente e che ti serve per definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui. 

 A proposito, grazie, Italo. 

 Le citazioni sono tratte da I. Calvino, Perché leggere i classici, Oscar Mondadori, Milano, 1995

mercoledì 2 agosto 2017

Bibliopillola n. 21: Per tenere insieme i pezzi


Andrés Neuman, Frammenti della notte, Ponte alle Grazie

Neuman mi aveva già colpita con “Le cose che non facciamo”, racconti che rivelano l’impressionante capacità di scomposizione della sua scrittura, una specie di occhio di bue che mette in luce dettagli e aspetti minimi dell’esistenza rischiarandola spietatamente; questo libro (il suo primo romanzo, redatto quindici anni fa) è strepitoso.
Roberto Bolano ha scritto che ne è stato “soggiogato” e “ipnotizzato”: mica uno qualsiasi.
E l’effetto è precisamente quello: un’esperienza ammaliante, emozionante ma senza eccessi, di una coinvolgimento quasi pudico. Neuman ha la rara capacità di rendere lirica una scrittura asciutta e senza orpelli; una trama disincantata, a tratti rassegnata, assume una potenza narrativa incredibilmente empatica.
Demetrio Rota è il protagonista: un protagonista in bianco e nero, un netturbino anonimo e senza storia che vive una condizione quotidiana perennemente intontita dalla mancanza di sonno (i turni di lavoro iniziano molto prima dell’alba e finiscono nella tarda mattinata). Una vita piatta condivisa con un inconsapevole (e per questo molto più felice di lui) collega/amico, in cui l’unica occasione di svago è il puzzle serale che l’uomo si concede prima di mettersi a dormire nello squallido appartamentino da single.
Ogni sera, tutte le sere, unisce i frammenti: tessere di paesaggi che gli ricordano la citta natia (Bariloche, che è anche il titolo originale del romanzo), una località perduta in mezzo ai boschi dove ha vissuto forse l’unica felicità che un’esistenza parecchio grama gli ha concesso, un amore giovanile ancora rimpianto. E ricompone cieli e alberi così come raduna ricordi e pezzi della propria vita già esausta, così come al lavoro nelle asfittiche aurore di Buenos Aires raccoglie i rifiuti scartati da altri esseri che palpitano e pulsano intorno a lui. Quasi scansandolo. Non c’è riconoscimento tra lui e la città, non gli appartiene, abita ancora un’adolescenza  che gli ha accordato un fugace amore, quel tanto che basta per sapere che esiste. Eppure arriva sempre un momento in cui le monotonie che salvano, perché regalano un finto ordine al quale aggrapparsi,  si rompono: il momento in cui le tessere non combaciano. In cui scompaiono i pochi punti di riferimento, in cui un tradimento inaspettato fa crollare il cielo cartonato che aveva costruito per ripararsi dalla pioggia: e comprende che non ha fatto altro che restare ingabbiato in un passato, che la sua vita si è rotta definitivamente molto tempo prima. 
Non voglio dire altro sulla storia; aggiungo che mi ha fatto tanto pensare sulla necessità di ognuno di noi di tenere insieme i propri pezzi. 
Abbiamo alle spalle trascorsi che innegabilmente sono parte di ciò che siamo, con i quali siamo costretti a fare sempre e comunque i conti. Spesso tuttavia non riusciamo a volgere il capo in avanti, a riprendere la forza e la volontà per progettarci, rilanciarci, rimetterci in discussione. Siamo stanchi, o impantanati nel troppo già vissuto, incapaci di credere che ci si possa stupire ancora: e limitiamo gli sforzi ad evitare ulteriori danni, e impariamo a convivere con gli spettri diafani dei tempi che son stati. 
Provando la sensazione di essere stati ormai scacciati dalla propria esistenza, come reietti: “se non posso vivere come voglio, allora preferisco non pensare che c’è un’altra vita”.

Eppure, forse non è così necessario che il puzzle si ricomponga sempre alla perfezione. Non è indispensabile che tutti i frammenti si incastrino esattamente tra loro: anche una visione d’insieme incompleta può rappresentare qualcosa,  una promessa non è per forza qualcosa di intatto.

A quei tempi non lasciavo mai i puzzle fatti dopo averli completati, mi sembrava non avesse senso, ora invece sento il bisogno di avere qualcosa che non sia rotto

Anche se ci scomponiamo, in ognuno dei pezzi c’è parte di noi, anche in quelli in cui gli angoli si sono scollati e non possono più unirsi ad altri. L’esattezza della vita a un certo punto si sporca: ma siamo fatti anche del più piccolo dei nostri sbagli.
Un libro davvero umano, che mi ha profondamente toccato.



sabato 15 luglio 2017

Bibliopillola n. 20: Contro le fughe impossibili


Quattro giorni di marzo, Jens Christian Grøndahl, Marsilio 

Questo è il lungo racconto di Ingrid, una donna sconvolta dall’inattesa condotta del figlio quindicenne che la obbliga a fare i conti con se stessa, convinta fino a quel momento di essere riuscita a trovare un equilibrio come madre, professionista, single divorziata.
Dal duro interrogatorio cui si sottopone (siamo noi i più severi giudici di noi stessi, scriveva Camus) si dipana una saga fatta di ricordi personali, dei racconti dei familiari, di confronti con figure reali così diverse da quelle che le nostre infanzie spesso costruiscono per proteggerci dall’evidenza che i nostri cari altro non sono che essere umani come noi, destinati a sbagliare, a fallire, a spaventare e a tradire.
Come se le foto dell’ album di famiglia rivelassero all’improvviso persone aliene da quelle che l’hanno accompagnata fino a diventare la quarantottenne in crisi attorno alla quale si snoda la narrazione. Un architetto famoso che ha scelto la pianificazione, la razionalità per mettersi in pace, per proteggersi da ciò che avrebbe voluto ma a cui ha rinunciato accomodandosi in una serena aura di donna in carriera. 
In particolare si stagliano sulla minuziosa disamina delle relazioni che Ingrid ricostruisce i “modelli” della madre Berthe e della nonna Ada, due donne che hanno inesorabilmente intrecciato le loro vite attribuendosi vicendevolmente troppa influenza sulle decisioni che hanno segnato le rispettive esistenze. 
Mi irriterebbe però offrire una chiave di lettura "al femminile": premesso che l'autore è uno scrittore danese, sono arrivata ad un'età e ad un numero tale di letture da non consentirmi pregiudiziali considerazioni sullo stile (diverso se a scrivere è un uomo o una donna?) o sulla sensibilità mostrata nello sviscerare i sentimenti, nell’esame scrupoloso dei rapporti e delle emozioni che li reggono, come se dipendesse esclusivamente dal genere di chi racconta o di chi legge. Così come sarebbe miope interpretarlo come la vicenda di una “madre”, perché lo stesso autore ha compiuto un ammirevole sforzo nel tratteggiare ogni individuo, ogni particolare episodio esentandosi da qualsiasi tipo di valutazione: sono tutti a loro modo innocenti nei confronti della vita che, arrivata ad un certo punto, costringe più ad interrogarsi che ad agire.
È un romanzo molto bello, una sofferta ricerca di sé attraverso le donne della famiglia, attraverso le persone amate, uomini, figli, amanti. I capitoli si inanellano su una sequenza temporale (quattro giorni, appunto) che è però scardinata nella sua linearità dal continuo riprendere episodi passati, accennati, interrotti, da approfondire, modificati da un incontro, una testimonianza inaspettata, una rivelazione. Ciononostante il racconto non è mai concitato, anche in momenti di grande coinvolgimento emotivo; le caratterizzazioni dei personaggi lasciano spazio a molte  digressioni sul mondo dell’arte (Ingrid cresce in una famiglia di scrittori e critici, circondata da quadri e famosi artisti, sballottata durante le peregrinazioni egocentriche di genitori e nonni fra suggestive terrazze a Trastevere, capanni che si affacciano su fiordi, cantieri avveniristici di Stoccolma). La scrittura è davvero esemplare, riesce a rendere con una capacità di dettaglio quasi fotografica ogni sfumatura nelle voci, ogni incrinatura nelle coscienze, le distanze incolmabili e i legami indissolubili fra certe anime: è accorta, lenta, piena, illuminata da una spietata chiarezza che incanta il lettore come un orizzonte del Nord, altero ma mai freddo.
E’ dunque anche spossante, perché ci si ritrova inesorabilmente nudi insieme ai personaggi, a specchiarsi 
“nell’aria di uno che bisognerebbe evacuare al più presto dal suo inferno borghese, con una coperta della protezione civile sulle spalle curve”
Arrivata all’ultima pagina ho pensato che non esistono decisioni in sé giuste o sbagliate, che la vita può essere intensa e vera anche così, sospesa sul confine nebbioso delle scelte mancate, dei rimpianti, delle responsabilità disertate, delle relazioni giudicate e giudicanti; che le eredità che ci portiamo dietro, pesanti o leggere, rinnegate o assunte a modello, ci rendono ciò che siamo;
 che da tutto si può fuggire, tranne che da noi stessi. 



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