John dos Passos, Manhattan Transfer, Dalai Editore
Quando
si parla della letteratura americana si citano nomi del calibro di Hemingway e
Fitzgerald: eppure John dos Passos è uno dei narratori più spietatamente lucidi
del sogno americano della prima metà del XX secolo. Scritto nel 1925, questo
libro intreccia nell’arco di vent’anni, dagli inizi del secolo al primo
dopoguerra, una manciata di esistenze che si aggirano tra i vicoli luridi e i
cantieri di acciaio e vetro di una New York che sta diventando metropoli.
Una
città che comincia a svettare in altezza ma a guardarla dal basso è l’acqua
scura che sciaborda intorno ai moli di Ellis Island, i bassifondi stipati di
italiani, polacchi, neri, irlandesi che si procacciano lavori alla giornata
morendo di fame, un dedalo di strade sporche solcate da starlette a caccia di un successo facile fra i cartelloni di
Broadway e le foglie di cavolo che marciscono negli angoli, arrampicatori
sociali dalle diverse fortune, avvocati rampanti, maghi di Wall Street ridotti
ad elemosinare un pranzo.
È
la nascita del capitalismo americano, lo sfondo del romanzo, la contemporaneità
più schietta composta da una folla dalle sorti contrapposte, chi scala la
rampa sociale grazie ai profitti e chi resta nelle cantine dei palazzi del
potere e delle grandi industrie.
Vite che nel racconto sono spezzettate, mischiate tra
di loro, a creare ritagli dorati e nere, luminosi e cupi.
Alcuni protagonisti tengono le fila
della poliedrica narrazione, conducendo intorno alle loro storie un groviglio
di personaggi minori, tutti ad affrescare un quadro vivente fatto di suoni, odori, brusii di fondo, chiasso, silenzi di miseria e musica da palcoscenico.
Originalissima infatti la struttura narrativa, che monta insieme i vari punti di vista,
con scarti minimi tra le diverse storie e il fluire degli anni che si recupera
solo dai dialoghi, dalle descrizioni degli eventi. Poca punteggiatura, uno
stile sperimentale che utilizza anche titoli di giornale, verbali di polizia,
citazioni letterarie e brani di canzoni, in un allestimento quasi
cinematografico.
Uno
sperimentatore, insomma; recuperando la biografia di questo “ignoto” John dos
Passos (fu tradotto la prima volta negli anni Trenta ma molte pagine furono
stralciate forse perché poco gradite al regime fascista -ci sono anche
anarchici e socialisti che cantano l’Internazionale nelle bettole newyorchesi-,
è poi “scomparso” dalle nostre letture fino a qualche anno fa) si comprende
molto di questo libro.
La vita di questo scrittore nato a Chicago, nipote di immigrati portoghesi, che ha combattuto durante la Grande Guerra per poi diventare architetto e giornalista, attribuisce senso a tutte le figure che animano la sua America, tutte indistintamente a cercare la
propria direzione, scendendo da piroscafi, solcando l’Hudson o salendo su
treni: Manhattan Transfer fa infatti riferimento alla linea di una sopraelevata
del West Side, e per tutto il libro le traversine su cui corrono le vite dei
pendolari, le gallerie sotterranee in cui si nascondono i contrabbandieri
durante il proibizionismo, insieme a reti e gallerie di fogne e agli scavi dei
cantieri rappresentano sempre la NY infernale che giace sotto i palazzi in
costruzione.
Nessuno di loro troverà un punto d’arrivo.
Nessuno potrà dire di aver
realizzato il proprio sogno, anche fra coloro che addenteranno una posizione da
benestanti.
Triturati
dal nuovo secolo, dalle sue dinamiche spersonalizzanti, dalla fredda logica del
profitto, da un progressivo ammutolirsi delle coscienze di fronte a tempi
diventati frenetici, continueranno a vagare inquieti fra guerre e società
nascenti, fra lustrini, gioielli e la violenza di un’epoca irrisolta.
Condannati
a girare intorno a se stessi, appena arrivati sull’isola vogliono tutti andare
via ma li si ritrova ancora lì, schiacciati su se stessi, dopo vent’anni.
Una
bella, tardiva scoperta. Un precursore sconosciuto, una scrittura che ricorda
le riprese scattanti e disorientanti delle cineprese da spalla, a testimoniare
quegli anni a stelle e strisce che forse furono meno ruggenti di quel che si
tramanda.
Un
demistificatore, insomma, che oggi, ancora e soprattutto oggi, conviene
leggere, considerando che le generazioni non si perdono solo nelle grandi
guerre ma anche nell’estenuante conflittualità di un Occidente in perenne
contrasto con il resto del mondo.