mercoledì 2 agosto 2017

Bibliopillola n. 21: Per tenere insieme i pezzi


Andrés Neuman, Frammenti della notte, Ponte alle Grazie

Neuman mi aveva già colpita con “Le cose che non facciamo”, racconti che rivelano l’impressionante capacità di scomposizione della sua scrittura, una specie di occhio di bue che mette in luce dettagli e aspetti minimi dell’esistenza rischiarandola spietatamente; questo libro (il suo primo romanzo, redatto quindici anni fa) è strepitoso.
Roberto Bolano ha scritto che ne è stato “soggiogato” e “ipnotizzato”: mica uno qualsiasi.
E l’effetto è precisamente quello: un’esperienza ammaliante, emozionante ma senza eccessi, di una coinvolgimento quasi pudico. Neuman ha la rara capacità di rendere lirica una scrittura asciutta e senza orpelli; una trama disincantata, a tratti rassegnata, assume una potenza narrativa incredibilmente empatica.
Demetrio Rota è il protagonista: un protagonista in bianco e nero, un netturbino anonimo e senza storia che vive una condizione quotidiana perennemente intontita dalla mancanza di sonno (i turni di lavoro iniziano molto prima dell’alba e finiscono nella tarda mattinata). Una vita piatta condivisa con un inconsapevole (e per questo molto più felice di lui) collega/amico, in cui l’unica occasione di svago è il puzzle serale che l’uomo si concede prima di mettersi a dormire nello squallido appartamentino da single.
Ogni sera, tutte le sere, unisce i frammenti: tessere di paesaggi che gli ricordano la citta natia (Bariloche, che è anche il titolo originale del romanzo), una località perduta in mezzo ai boschi dove ha vissuto forse l’unica felicità che un’esistenza parecchio grama gli ha concesso, un amore giovanile ancora rimpianto. E ricompone cieli e alberi così come raduna ricordi e pezzi della propria vita già esausta, così come al lavoro nelle asfittiche aurore di Buenos Aires raccoglie i rifiuti scartati da altri esseri che palpitano e pulsano intorno a lui. Quasi scansandolo. Non c’è riconoscimento tra lui e la città, non gli appartiene, abita ancora un’adolescenza  che gli ha accordato un fugace amore, quel tanto che basta per sapere che esiste. Eppure arriva sempre un momento in cui le monotonie che salvano, perché regalano un finto ordine al quale aggrapparsi,  si rompono: il momento in cui le tessere non combaciano. In cui scompaiono i pochi punti di riferimento, in cui un tradimento inaspettato fa crollare il cielo cartonato che aveva costruito per ripararsi dalla pioggia: e comprende che non ha fatto altro che restare ingabbiato in un passato, che la sua vita si è rotta definitivamente molto tempo prima. 
Non voglio dire altro sulla storia; aggiungo che mi ha fatto tanto pensare sulla necessità di ognuno di noi di tenere insieme i propri pezzi. 
Abbiamo alle spalle trascorsi che innegabilmente sono parte di ciò che siamo, con i quali siamo costretti a fare sempre e comunque i conti. Spesso tuttavia non riusciamo a volgere il capo in avanti, a riprendere la forza e la volontà per progettarci, rilanciarci, rimetterci in discussione. Siamo stanchi, o impantanati nel troppo già vissuto, incapaci di credere che ci si possa stupire ancora: e limitiamo gli sforzi ad evitare ulteriori danni, e impariamo a convivere con gli spettri diafani dei tempi che son stati. 
Provando la sensazione di essere stati ormai scacciati dalla propria esistenza, come reietti: “se non posso vivere come voglio, allora preferisco non pensare che c’è un’altra vita”.

Eppure, forse non è così necessario che il puzzle si ricomponga sempre alla perfezione. Non è indispensabile che tutti i frammenti si incastrino esattamente tra loro: anche una visione d’insieme incompleta può rappresentare qualcosa,  una promessa non è per forza qualcosa di intatto.

A quei tempi non lasciavo mai i puzzle fatti dopo averli completati, mi sembrava non avesse senso, ora invece sento il bisogno di avere qualcosa che non sia rotto

Anche se ci scomponiamo, in ognuno dei pezzi c’è parte di noi, anche in quelli in cui gli angoli si sono scollati e non possono più unirsi ad altri. L’esattezza della vita a un certo punto si sporca: ma siamo fatti anche del più piccolo dei nostri sbagli.
Un libro davvero umano, che mi ha profondamente toccato.



sabato 15 luglio 2017

Bibliopillola n. 20: Contro le fughe impossibili


Quattro giorni di marzo, Jens Christian Grøndahl, Marsilio 

Questo è il lungo racconto di Ingrid, una donna sconvolta dall’inattesa condotta del figlio quindicenne che la obbliga a fare i conti con se stessa, convinta fino a quel momento di essere riuscita a trovare un equilibrio come madre, professionista, single divorziata.
Dal duro interrogatorio cui si sottopone (siamo noi i più severi giudici di noi stessi, scriveva Camus) si dipana una saga fatta di ricordi personali, dei racconti dei familiari, di confronti con figure reali così diverse da quelle che le nostre infanzie spesso costruiscono per proteggerci dall’evidenza che i nostri cari altro non sono che essere umani come noi, destinati a sbagliare, a fallire, a spaventare e a tradire.
Come se le foto dell’ album di famiglia rivelassero all’improvviso persone aliene da quelle che l’hanno accompagnata fino a diventare la quarantottenne in crisi attorno alla quale si snoda la narrazione. Un architetto famoso che ha scelto la pianificazione, la razionalità per mettersi in pace, per proteggersi da ciò che avrebbe voluto ma a cui ha rinunciato accomodandosi in una serena aura di donna in carriera. 
In particolare si stagliano sulla minuziosa disamina delle relazioni che Ingrid ricostruisce i “modelli” della madre Berthe e della nonna Ada, due donne che hanno inesorabilmente intrecciato le loro vite attribuendosi vicendevolmente troppa influenza sulle decisioni che hanno segnato le rispettive esistenze. 
Mi irriterebbe però offrire una chiave di lettura "al femminile": premesso che l'autore è uno scrittore danese, sono arrivata ad un'età e ad un numero tale di letture da non consentirmi pregiudiziali considerazioni sullo stile (diverso se a scrivere è un uomo o una donna?) o sulla sensibilità mostrata nello sviscerare i sentimenti, nell’esame scrupoloso dei rapporti e delle emozioni che li reggono, come se dipendesse esclusivamente dal genere di chi racconta o di chi legge. Così come sarebbe miope interpretarlo come la vicenda di una “madre”, perché lo stesso autore ha compiuto un ammirevole sforzo nel tratteggiare ogni individuo, ogni particolare episodio esentandosi da qualsiasi tipo di valutazione: sono tutti a loro modo innocenti nei confronti della vita che, arrivata ad un certo punto, costringe più ad interrogarsi che ad agire.
È un romanzo molto bello, una sofferta ricerca di sé attraverso le donne della famiglia, attraverso le persone amate, uomini, figli, amanti. I capitoli si inanellano su una sequenza temporale (quattro giorni, appunto) che è però scardinata nella sua linearità dal continuo riprendere episodi passati, accennati, interrotti, da approfondire, modificati da un incontro, una testimonianza inaspettata, una rivelazione. Ciononostante il racconto non è mai concitato, anche in momenti di grande coinvolgimento emotivo; le caratterizzazioni dei personaggi lasciano spazio a molte  digressioni sul mondo dell’arte (Ingrid cresce in una famiglia di scrittori e critici, circondata da quadri e famosi artisti, sballottata durante le peregrinazioni egocentriche di genitori e nonni fra suggestive terrazze a Trastevere, capanni che si affacciano su fiordi, cantieri avveniristici di Stoccolma). La scrittura è davvero esemplare, riesce a rendere con una capacità di dettaglio quasi fotografica ogni sfumatura nelle voci, ogni incrinatura nelle coscienze, le distanze incolmabili e i legami indissolubili fra certe anime: è accorta, lenta, piena, illuminata da una spietata chiarezza che incanta il lettore come un orizzonte del Nord, altero ma mai freddo.
E’ dunque anche spossante, perché ci si ritrova inesorabilmente nudi insieme ai personaggi, a specchiarsi 
“nell’aria di uno che bisognerebbe evacuare al più presto dal suo inferno borghese, con una coperta della protezione civile sulle spalle curve”
Arrivata all’ultima pagina ho pensato che non esistono decisioni in sé giuste o sbagliate, che la vita può essere intensa e vera anche così, sospesa sul confine nebbioso delle scelte mancate, dei rimpianti, delle responsabilità disertate, delle relazioni giudicate e giudicanti; che le eredità che ci portiamo dietro, pesanti o leggere, rinnegate o assunte a modello, ci rendono ciò che siamo;
 che da tutto si può fuggire, tranne che da noi stessi. 



mercoledì 28 giugno 2017

Bibliopillola n. 19: Per viaggiare intorno a se stessi (anticinetico)

Ho scoperto Saer. 
La scrittura è magistrale, un periodare lento e pacato che ricorda un flusso di coscienza, un "sogno guidato" come scriveva Borges riferendosi alla  sudamericanità. 

La prosa è saggia e profonda ma non ci si perde, conduce in riflessioni interiori o in descrizioni quasi disegnate per quanto dettagliate che non appesantiscono mai la lettura. Lo scrittore è un argentino trapiantato a Parigi negli anni Sessanta del secolo scorso (ma tu guarda le coincidenze), e scomparso nel 2005. 

La vicenda narrata in questo romanzo è curiosa, insolita, accattivante: il protagonista è Real, un coraggioso e tormentato medico, allievo di un illuminato (forse anche anacronistico per i suoi tempi) psichiatra che apre nei primissimi anni dell’Ottocento una clinica all’avanguardia in Argentina  per la degenza e la cura dei “pazzi”. I pazienti sono tutti rampolli di famiglie aristocratiche che per lavare l’onta sociale di un parente disagiato pagano profumatamente affinchè siano allontanati in un ricovero (inteso da loro  internamento puro e semplice) e spesso gli stessi sono anche prelevati a domicilio. 
La trama si dipana intorno al diario di Real che racconta di un viaggio quasi dantesco nella pampa per condurre in clinica un singolarissimo assortimento di pazienti. Le anime inquiete che costituiscono la carovana saranno traghettate attraverso le desolate vastità delle praterie argentine, un paesaggio capriccioso e imprevedibile, l’inseguimento di un orizzonte sfocato al cospetto del quale anche i confini tra pazzia e normalità diventeranno tremuli. Ognuno di loro sperimenterà un esilio da se stesso, specchiandosi in una natura spaccata, fredda e calda, tempestosa e immobile, arida e piovosa. Le loro sfaccettate personalità, timori e deliri, frenesie e gioie, si sfumeranno sotto un unico cielo di nuvole che corre su vite e deserti,  implacabile sulle loro teste, sani o malati che siano. Un cielo in continua evoluzione, capriccioso e inclemente, a rivelare che qualsiasi certezza può correre via in qualsiasi momento.
Ho trovato molto bella soprattutto la parte centrale del racconto, il viaggio in sé, arricchito dalla descrizione dei pittoreschi pazzi (ognuno meriterebbe un libro): un catatonico che esprime con le mani un mondo di pensieri, una suora ninfomane, un iperattivo, due fratelli in un universo ridotto di parole. Intorno a loro ruotano soldati, avventurieri, commercianti, prostitute, a formare una compagnia che condivide, vive e soffre, fa l’amore, litiga, affronta le catastrofi naturali e i banditi, agitandosi sotto quella volta che cinge il capo di chi ha ragione e di chi no (ed è facile confondersi in spazi che non hanno più confini). La solidarietà della solitudine. 

Real guarda la terra, il sole e le stelle: e scopre il nudo mistero di una vita sempre pulsante, che si affanna testardamente senza che emerga un senso a chiarirne il perché.


“La Ragione non sempre esprime il meglio dell’umanità”: eh, Sudamerica ….

martedì 27 giugno 2017

A Sud di noi


Riaprire i battenti della libreria con 40 gradi che picchiano sulle imposte: il clima sudamericano impone una violenta voglia di dare fiato a parole roventi, alito caldo che brucia le righe per vergare a fuoco certe passioni. 
Come quella (appunto) per la letteratura a sud del mondo. 

Che entri un po' d'aria, sebbene calda, e luce, per quanto spietata, in farmacia: serve anche ad ammansire i sensi di colpa per le porte tenute chiuse per troppi mesi. 

Abbiamo la grande fortuna di lavorare tanto e di far ciò che ci piace: ci impegniamo con passione nelle nostre professioni, e le passioni, si sa, divorano tempo, forza e anima. Questo luogo resta uno dei posti del cuore, sempre ed ovviamente, ma paga lo scotto di condividere il tempo residuo e risicato con il lavoro e le nostre letture. 
Speriamo comunque sempre che i nostri post continuino ad allietarvi, seppur discontinui. 


Bentornati e buona estate. 
E&V


domenica 2 aprile 2017

Bibliopillola n. 18 Per radici mobili



É complesso, difficile, forse anche delicato parlare di “radici”. Mi riferisco ai luoghi d’origine di ogni individuo, sia reali che culturali: il paese o la città in cui si è nati o cresciuti, le tradizioni che ci hanno insegnato o che ci hanno forgiato, la cultura alla quale riconosciamo una appartenenza.

E’ innegabile che la formazione del sé faccia riferimento a paesaggi, strade, urla nei cortili, campagne o montagne, boschi o borghi marinari, parole e storie raccontate, norme assimilate e regole di vita tramandate, dèi e demoni di religioni e miti popolari. E’ curioso sbrogliare i nodi che queste radici compongono se la vita ti mette a percorrere strade diverse o ti fa interagire con persone che vengono dai mondi più disparati: penso a me stessa, alla mia Puglia che è un coacervo di costumi contadini, di superstizioni di gente di mare, in cui si parlano dialetti che mischiano arabo, francese, lingue dell’est; penso ai miei nonni beneventani (un partenopeo e una mezza Rom), a quelli baresi, uno normanno (rosso di carnagione e alto come un vichingo) e l’altra corvina e con gli occhi nero carbone come un’andalusa (ché abbiamo avuto anche gli spagnoli qui giù). 

Penso a quanto, sebbene si percorrano svariati itinerari, sebbene ci si trasferisca spesso o si viaggi molto, si avverta sempre il bisogno di un ritorno a casa, che sia essa intesa in senso letterale o come un luogo dell’anima in cui ci riconoscersi e continuare a costruirsi. 

Ho scelto questi due titoli come viatico, perché le radici mobili aiutano a guardarsi con più tolleranza e a non farsi irretire da confini troppo netti, come in generale sarebbe il caso di fare quando ci si interroga sulle proprie origini e in particolare in tempi come quelli attuali, che tendono ad una regressione verso i particolarismi e i micronazionalismi. É sempre un bene sottolineare che l’identità è essa stessa frutto di pluralità, che la complessità è una risorsa per il singolo individuo e le genti, che le tessere di questi puzzle storici spesso le rinveniamo scavando altrove.

Questa bibliopillola scaturisce dunque da due libri scritti da pugliesi, in cui le trame riconducono entrambe alla necessità di imparare, nella vita, a radicarsi, sradicarsi, ri-radicarsi nuovamente (il risultato è cacofonico, me ne rendo conto). 

Il che avviene una volta imparato che si porta dentro tutto ciò che serve per rimettere su, ogni volta, casa e se stessi. 


Dirce Scarpello, L’attrazione dei talenti, Les Flaneurs. 


Due storie di donne che si sovrappongono incontrandosi, una pugliese ed una albanese, vite diverse ma affacciate su quella stretta lingua di mare che è l'Adriatico. 
Due donne che soffrono a causa delle loro stesse radici, riconosciute, negate, che le respingono, dalle quali si allontanano: fino a che non intuiscono che non sono (solo) i luoghi da cui nasci a fare ciò che sei. 
E’ sempre necessario ricostruirsi, affidarsi a se stesse, comprendere e coltivare un talento, un proprio modo di essere profondo che ci riconcilia con il mondo ovunque si decida di viverlo: un habitus che occorre cucire e indossare, che riconosciamo come ciò che sappiamo fare bene e ci piace, e che diventa insieme capacità d’ascolto e di contatto. Per tirare fuori un’idea, un progetto di sé che guida e sorregga, è imprescindibile ascoltare ed ascoltarsi. Farsi fare le domande, azzardare le risposte. 

Ho apprezzato molto la bella riflessione sulla comunicazione con gli adolescenti, che nella narrazione emerge dal rapporto tra una delle due protagoniste e la giovane nipote: se solo ogni tanto prestassimo davvero l’orecchio, porgessimo una mano sotto forma di domanda, abbattessimo quelle convinzioni inattaccabili dentro le quali ci siamo murati a costo di non intaccare una presunta felicità giornaliera.

Entrambe le donne, così lontane tra loro, condividono la scoperta che occorre imparare a tornare sempre su sé stesse, a non chiudere mai definitivamente le porte, perché anche i ritorni possono essere nuove partenze; imparano che riconoscersi significa anche abituarsi a guardare immagini diverse in specchi distorti, perché si cambia e cambiano le cose e le persone intorno a noi; imparano che “radici” possono anche essere gli incontri casuali e fortuiti.
E i talenti, come i dolori, si attraggono e si riconoscono. 

Una scrittura aggraziata e colta, una lettura che fa da specchio, che muove i personaggi fra il capoluogo, le masserie brindisine e il salento, luoghi di origine e adozione dell'autrice.


Davide Grittani, E invece io, Robin Edizioni 

“In alcuni casi occorrono i titoli di coda per ricordarsi di essere ancora vivi”: la definizione perfetta per il protagonista di questo romanzo. Viviamo innumerevoli The End nel corso delle nostre esistenze e ci sorprende che siamo capaci di rimettere insieme pezzi e cocci, ogni volta. Anche se ad un certo punto può accadere che ciò che ne venga fuori non corrisponda più a noi stessi.

Un giornalista settentrionale deluso dalla sua professione e con in mano un bilancio non esaltante del proprio mezzo secolo di vita, tra un matrimonio fallito e una incapacità esistenziale di definirsi, decide una emigrazione al contrario: accetta il trasferimento da Borgo Ticino, frazione di Pavia, in una piccola redazione meridionale. E come se avesse bisogno di “scendere” ulteriormente alla ricerca di qualcosa che più in fondo non potrebbe stare, progetta un viaggio in Sudamerica come regalo di rappacificazione con se stesso per festeggiare (o forse no) i suoi cinquant’anni. 
Fra il Tavoliere delle Puglie e la pampa argentina si ritroverà nudo, di fronte ad un vaso di Pandora definitivamente scoperchiato, in una resa dei conti senza più certezze e punti di riferimento, tradito dalle persone che riteneva più vicine e da una professione che gli si rivolta contro. 

Un’odissea tra l’epica e la gag, un antieroe sballottato tra sirene-calunnie e ciclopi che gli portano via tutto, che suscita immediatamente simpatia ed empatia; una spietata critica ad un giornalismo che si è mortalmente prostituito ignorando la verità dei fatti, ai luoghi comuni su un meridione brutto, sporco e cattivo, ad una politica che si autoproclama “quella ancora pulita” sulla pelle dei detrattori massacrati a suon di scoop scandalistici. 

In un sud che è luce spietata, a contatto con la terra, le parole che possono fissare e uccidere vengono sostituite dai gesti, un modo di esprimersi che offre interpretazioni ampie, ariose, come il continuo gesticolare delle mani; in un sud che ancora vende sogni si scopre l’unica verità possibile, che le sconfitte e le sofferenze regalano la bellezza del perdere che ci ricorda la forza dell’umiltà. 
Perché sempre da lì si deve ripartire, dal basso, anche lasciando ogni tanto i conti in sospeso, senza necessariamente determinarsi, riconoscersi in qualcosa di definitivo, attribuirsi ruoli, etichette, luoghi.

Scrittura correttissima, pulita e densa allo stesso tempo. Si è spinti ad un ritmo di lettura veloce per la prosa accattivante (alcuni tratti sono esilaranti) ma ogni tanto ci si deve fermare a riflettere sulle ultime righe. Una penna consapevole e leggera per un racconto che ha quasi del filosofico. 


Bello sapere, mentre si scrive, che per la prima volta il libro di un foggiano ("sono nato a Foggia, a Foggia vivo e sempre qui torno" cit.) è iscritto al Premio Strega 2017.

lunedì 13 febbraio 2017

Bugiardini: fra le letture di febbraio

La nostra selezione di titoli tra cui curiosare cercando balsami e cachet, poiché l'inverno è ancora lungo.


Mai senza un classico 
William Somerset Maugham "Moom", La diva Julia, Adelphi


Una lettura imprescindibile. Una prosa che culla e accattiva, che avviluppa pagina dopo pagina, che solo la melodia incantevole delle parole precise a disegnare la narrazione intorno è motivo di soddisfazione indefinita. Si aggiunga una trama semplicemente perfetta, che non perde mai il ritmo e tiene sul filo, che si segue senza mai essere scontata, ricca, densa, nella quale i personaggi si incastonano millimetricamente a restituire un quadro finale, quelle ultime venti pagine, che ti fanno spianare un sorriso trattenuto per tutta la lettura. Un sorriso di appagamento, di gratitudine. La diva è la grande attrice, la donna del palco, una vita recitata alla perfezione e forse non c'è altro modo di viverla, questa vita, se non interpretando parti, strappando sempre l'ultimo applauso, prima che agli spettatori, a te stesso.


Perchè la vita intorno potremmo essere costretti a costruircela 
Julio Cortazar, Componibile 62, Sur

Parlare dei libri di Cortazar è sempre difficile, perché é difficile leggerlo, ed è una difficoltà che va ben al di là dei misteri linguistici, delle trame irrisolte, dei personaggi che si confondono tra di loro. È la difficoltà dell'esprimere ciò che fa provare, quel territorio lontano in cui le parole evocano immagini e ricordi e stati d'animo e lo fanno con una potenza tale da lasciarti senza fiato e confuso. È sempre la stessa sensazione di ritrovarsi perdendosi, di riconoscersi in una galleria di specchi deformanti, di sapere cose che non sapremmo mai descrivere. 
Questo libro nasce da un capriccio di Rayuela, una storia che solo il lettore può decidere dove va e cosa racconta, è componibile, appunto, fornisce frammenti che sta a noi ricomporre, di modo che diventa un libro diverso per ognuno che lo legge. 
Il tentativo estremo di DIRE ciò che è contraddittorio, sfuggente, di ricordare un sogno svanito al risveglio, di cui restano brandelli sospesi che spariscono anche loro non appena si inizia a pensare, a riflettere. 
Una zona limbica, un universo di possibilità come un mazzo di carte a strapparci da mondi reali di senso e perfezione, in cui fingiamo sempre di non accorgerci che ogni cosa è se stessa e contemporaneamente il suo tragico contrario. 
La letteratura sta qui a ricordarcelo, senza farcelo capire, facendo semplicemente risuonare lontane eco nelle profondità più intime di noi stessi: e sono corde che vibrano sorde e che producono suoni che ci prendono, perché la musica non occorre capirla e conoscerla perché ci emozioni. 
Così è per le parole; così è per tutti gli amori non detti e non vissuti (ecco, si, di questo parla Componibile 62) che si raggomitolano su se stessi per sfuggire a compunte razionalità.


Inibitore dei lieti fini
Michael Cunningham, Un cigno selvatico, La nave di Teseo

In una rutilante e irriverente parata, Cunningham ripropone le fiabe classiche stravolgendole, rivoltandole, passando dalla parte del lupo cattivo, della strega, del maleficio. Con uno stile sferzante, serrato, sarcastico lontanissimo dalle frasi color pastello delle favole, disegna il mondo quale davvero è, quello del (dis)incanto, delle case di marzapane nel bosco che sono più ospitali della realtà fuori, di Biancaneve e il Principe avvelenati non già dalla mela ma dalla routine quotidiana, di piante di fagioli magici che fanno preferire i Giganti ai boscaioli. Perché i fortunati, gli eroi, i belli, i virtuosi vivono solo in sogni edulcorati, e noi "riusciamo a rovinarci con le nostre stesse mani" senza bisogno della rabbia di creature fantastiche o di sortilegi. Perché siamo eternamente insoddisfatti, livorosi, costretti ad ambire a felicità fasulle pur di emulare coloro che invidiamo senza renderci conto di quello che desideriamo senza convinzione. Perché non ci risolviamo ad agire e speriamo in una magia che non arriverà mai, frequentando solo i nostri lati oscuri. E tuttavia in qualcuna delle storie (le più belle) emerge uno spiraglio di luce, uno strappo piccolo (bellissimi "Tenace; stagno", parodia nera de Il soldatino di piombo e "Bestia"), gesti preziosi che rivelano un'umanità che può emergere solo a patto di rinunciare al lieto fine a tutti i costi. 

Fine della storia. Perché il "vissero per sempre felici e contenti" si abbatte sempre come una lama di ghigliottina.


Terapia a rinforzo: musica e parole
J. Cortazar, J. Munoz, L'inseguitore, SUR

Non che si sia in fissa con Cortazar. Vabene, si dirà la verità: lo si è. 
Ma le colorate copertine Sur non aiutano a guarire da certe dipendenze. 
La musica è la forma di espressione che canta le passioni umane in un modo intimo, struggente, profondo. Chi vive di musica sa cosa significa inseguire, componendo le note in scale, la realtà com'è per ognuno di noi, ogni volta diversa, dalle altre e dalla stessa che viviamo una volta deposto un sassofono o una chitarra o un microfono. È un'urgenza, un urlo, una risata, la gioia e la disperazione: e ci sono artisti che ritrovandosi umani solo suonando creano qualcosa di irripetibile. Cortazar riporta gli ultimi giorni di vita di Charlie Parker, nei panni del suo amico biografo Bruno, e con la maestria di cui solo lui è capace crea un racconto unico come il jazz del grande sassofonista. In una atmosfera intrisa di fumo, dolore, musica, tra locali sordidi e studi di registrazione narra la vita di un uomo tormentato e alla continua ricerca di qualcosa, un genio che implode su se stesso distruggendosi ma lasciando creazioni di rara bellezza che noi possiamo ancora ascoltare. Così come per fortuna possiamo leggerne, scritte da una voce che è essa stessa musica, che ci conduce davanti a quella porta che cerchiamo in mille modi, durante una vita, di aprire: a calci, sfondandola, fissandola muti. Quella che si apre con la musica, con le parole, con il -raro- coraggio di correre verso la propria umanità. Se si vive di musica oltre che di libri, "L'inseguitore" va letto. Si aggiunga che questa edizione è impreziosita dalle illustrazioni di Munõz, fumettista argentino: e queste bisogna solo guardarle.

Pur se nere, sempre favole ...
Mitch Cullin, Tideland, Fazi














Spiazzante. Un libro che risucchia dalle prime pagine, a seguire prima con animo curioso le vicende di una bambina dall'immaginazione potente e salvifica, poi con una sorta di allarme interiore crescente, quando ci si rende conto che la piccola non è che una Alice persa in una tana di Bianconiglio che tanto bianco non è. Surreale e grottesco, riesce comunque a restare aderente ad una realtà sconfitta, fatta di personaggi perdenti e soli, che non sanno adeguarsi a vite diverse da come le hanno sognate e ne abitano di proprie costruite su desideri male imbalsamati. Il tanfo della solitudine va coperto a colpi di vernice e immaginazione, e in effetti solo i bambini insegnano come si possa sopravvivere grazie a scoiattoli dalla personalità bizzarra, teste di bambole a fare compagnia e carcasse di autobus popolate da lucciole. 

Ci sono pagine da cui emerge un lirismo che non ti aspetti in uno scenario così decadente, altre che lasciano un'amarezza senza fondo, però si scampa riconoscendosi in quel cinismo che si impara da subito per accettare sia il bisogno d'amore che la mancanza dello stesso. 

Ricorda il Leroy di "Ingannevole è il cuore più di ogni cosa", anche se Cullin ha uno stile meno crudele, che in alcune belle pagine trasforma il deserto che molti abitano sin dall'infanzia in una realtà magica.




Buona Lettura
Emma&Valeria



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