mercoledì 2 agosto 2017

Bibliopillola n. 21: Per tenere insieme i pezzi


Andrés Neuman, Frammenti della notte, Ponte alle Grazie

Neuman mi aveva già colpita con “Le cose che non facciamo”, racconti che rivelano l’impressionante capacità di scomposizione della sua scrittura, una specie di occhio di bue che mette in luce dettagli e aspetti minimi dell’esistenza rischiarandola spietatamente; questo libro (il suo primo romanzo, redatto quindici anni fa) è strepitoso.
Roberto Bolano ha scritto che ne è stato “soggiogato” e “ipnotizzato”: mica uno qualsiasi.
E l’effetto è precisamente quello: un’esperienza ammaliante, emozionante ma senza eccessi, di una coinvolgimento quasi pudico. Neuman ha la rara capacità di rendere lirica una scrittura asciutta e senza orpelli; una trama disincantata, a tratti rassegnata, assume una potenza narrativa incredibilmente empatica.
Demetrio Rota è il protagonista: un protagonista in bianco e nero, un netturbino anonimo e senza storia che vive una condizione quotidiana perennemente intontita dalla mancanza di sonno (i turni di lavoro iniziano molto prima dell’alba e finiscono nella tarda mattinata). Una vita piatta condivisa con un inconsapevole (e per questo molto più felice di lui) collega/amico, in cui l’unica occasione di svago è il puzzle serale che l’uomo si concede prima di mettersi a dormire nello squallido appartamentino da single.
Ogni sera, tutte le sere, unisce i frammenti: tessere di paesaggi che gli ricordano la citta natia (Bariloche, che è anche il titolo originale del romanzo), una località perduta in mezzo ai boschi dove ha vissuto forse l’unica felicità che un’esistenza parecchio grama gli ha concesso, un amore giovanile ancora rimpianto. E ricompone cieli e alberi così come raduna ricordi e pezzi della propria vita già esausta, così come al lavoro nelle asfittiche aurore di Buenos Aires raccoglie i rifiuti scartati da altri esseri che palpitano e pulsano intorno a lui. Quasi scansandolo. Non c’è riconoscimento tra lui e la città, non gli appartiene, abita ancora un’adolescenza  che gli ha accordato un fugace amore, quel tanto che basta per sapere che esiste. Eppure arriva sempre un momento in cui le monotonie che salvano, perché regalano un finto ordine al quale aggrapparsi,  si rompono: il momento in cui le tessere non combaciano. In cui scompaiono i pochi punti di riferimento, in cui un tradimento inaspettato fa crollare il cielo cartonato che aveva costruito per ripararsi dalla pioggia: e comprende che non ha fatto altro che restare ingabbiato in un passato, che la sua vita si è rotta definitivamente molto tempo prima. 
Non voglio dire altro sulla storia; aggiungo che mi ha fatto tanto pensare sulla necessità di ognuno di noi di tenere insieme i propri pezzi. 
Abbiamo alle spalle trascorsi che innegabilmente sono parte di ciò che siamo, con i quali siamo costretti a fare sempre e comunque i conti. Spesso tuttavia non riusciamo a volgere il capo in avanti, a riprendere la forza e la volontà per progettarci, rilanciarci, rimetterci in discussione. Siamo stanchi, o impantanati nel troppo già vissuto, incapaci di credere che ci si possa stupire ancora: e limitiamo gli sforzi ad evitare ulteriori danni, e impariamo a convivere con gli spettri diafani dei tempi che son stati. 
Provando la sensazione di essere stati ormai scacciati dalla propria esistenza, come reietti: “se non posso vivere come voglio, allora preferisco non pensare che c’è un’altra vita”.

Eppure, forse non è così necessario che il puzzle si ricomponga sempre alla perfezione. Non è indispensabile che tutti i frammenti si incastrino esattamente tra loro: anche una visione d’insieme incompleta può rappresentare qualcosa,  una promessa non è per forza qualcosa di intatto.

A quei tempi non lasciavo mai i puzzle fatti dopo averli completati, mi sembrava non avesse senso, ora invece sento il bisogno di avere qualcosa che non sia rotto

Anche se ci scomponiamo, in ognuno dei pezzi c’è parte di noi, anche in quelli in cui gli angoli si sono scollati e non possono più unirsi ad altri. L’esattezza della vita a un certo punto si sporca: ma siamo fatti anche del più piccolo dei nostri sbagli.
Un libro davvero umano, che mi ha profondamente toccato.



sabato 15 luglio 2017

Bibliopillola n. 20: Contro le fughe impossibili


Quattro giorni di marzo, Jens Christian Grøndahl, Marsilio 

Questo è il lungo racconto di Ingrid, una donna sconvolta dall’inattesa condotta del figlio quindicenne che la obbliga a fare i conti con se stessa, convinta fino a quel momento di essere riuscita a trovare un equilibrio come madre, professionista, single divorziata.
Dal duro interrogatorio cui si sottopone (siamo noi i più severi giudici di noi stessi, scriveva Camus) si dipana una saga fatta di ricordi personali, dei racconti dei familiari, di confronti con figure reali così diverse da quelle che le nostre infanzie spesso costruiscono per proteggerci dall’evidenza che i nostri cari altro non sono che essere umani come noi, destinati a sbagliare, a fallire, a spaventare e a tradire.
Come se le foto dell’ album di famiglia rivelassero all’improvviso persone aliene da quelle che l’hanno accompagnata fino a diventare la quarantottenne in crisi attorno alla quale si snoda la narrazione. Un architetto famoso che ha scelto la pianificazione, la razionalità per mettersi in pace, per proteggersi da ciò che avrebbe voluto ma a cui ha rinunciato accomodandosi in una serena aura di donna in carriera. 
In particolare si stagliano sulla minuziosa disamina delle relazioni che Ingrid ricostruisce i “modelli” della madre Berthe e della nonna Ada, due donne che hanno inesorabilmente intrecciato le loro vite attribuendosi vicendevolmente troppa influenza sulle decisioni che hanno segnato le rispettive esistenze. 
Mi irriterebbe però offrire una chiave di lettura "al femminile": premesso che l'autore è uno scrittore danese, sono arrivata ad un'età e ad un numero tale di letture da non consentirmi pregiudiziali considerazioni sullo stile (diverso se a scrivere è un uomo o una donna?) o sulla sensibilità mostrata nello sviscerare i sentimenti, nell’esame scrupoloso dei rapporti e delle emozioni che li reggono, come se dipendesse esclusivamente dal genere di chi racconta o di chi legge. Così come sarebbe miope interpretarlo come la vicenda di una “madre”, perché lo stesso autore ha compiuto un ammirevole sforzo nel tratteggiare ogni individuo, ogni particolare episodio esentandosi da qualsiasi tipo di valutazione: sono tutti a loro modo innocenti nei confronti della vita che, arrivata ad un certo punto, costringe più ad interrogarsi che ad agire.
È un romanzo molto bello, una sofferta ricerca di sé attraverso le donne della famiglia, attraverso le persone amate, uomini, figli, amanti. I capitoli si inanellano su una sequenza temporale (quattro giorni, appunto) che è però scardinata nella sua linearità dal continuo riprendere episodi passati, accennati, interrotti, da approfondire, modificati da un incontro, una testimonianza inaspettata, una rivelazione. Ciononostante il racconto non è mai concitato, anche in momenti di grande coinvolgimento emotivo; le caratterizzazioni dei personaggi lasciano spazio a molte  digressioni sul mondo dell’arte (Ingrid cresce in una famiglia di scrittori e critici, circondata da quadri e famosi artisti, sballottata durante le peregrinazioni egocentriche di genitori e nonni fra suggestive terrazze a Trastevere, capanni che si affacciano su fiordi, cantieri avveniristici di Stoccolma). La scrittura è davvero esemplare, riesce a rendere con una capacità di dettaglio quasi fotografica ogni sfumatura nelle voci, ogni incrinatura nelle coscienze, le distanze incolmabili e i legami indissolubili fra certe anime: è accorta, lenta, piena, illuminata da una spietata chiarezza che incanta il lettore come un orizzonte del Nord, altero ma mai freddo.
E’ dunque anche spossante, perché ci si ritrova inesorabilmente nudi insieme ai personaggi, a specchiarsi 
“nell’aria di uno che bisognerebbe evacuare al più presto dal suo inferno borghese, con una coperta della protezione civile sulle spalle curve”
Arrivata all’ultima pagina ho pensato che non esistono decisioni in sé giuste o sbagliate, che la vita può essere intensa e vera anche così, sospesa sul confine nebbioso delle scelte mancate, dei rimpianti, delle responsabilità disertate, delle relazioni giudicate e giudicanti; che le eredità che ci portiamo dietro, pesanti o leggere, rinnegate o assunte a modello, ci rendono ciò che siamo;
 che da tutto si può fuggire, tranne che da noi stessi. 



mercoledì 28 giugno 2017

Bibliopillola n. 19: Per viaggiare intorno a se stessi (anticinetico)

Ho scoperto Saer. 
La scrittura è magistrale, un periodare lento e pacato che ricorda un flusso di coscienza, un "sogno guidato" come scriveva Borges riferendosi alla  sudamericanità. 

La prosa è saggia e profonda ma non ci si perde, conduce in riflessioni interiori o in descrizioni quasi disegnate per quanto dettagliate che non appesantiscono mai la lettura. Lo scrittore è un argentino trapiantato a Parigi negli anni Sessanta del secolo scorso (ma tu guarda le coincidenze), e scomparso nel 2005. 

La vicenda narrata in questo romanzo è curiosa, insolita, accattivante: il protagonista è Real, un coraggioso e tormentato medico, allievo di un illuminato (forse anche anacronistico per i suoi tempi) psichiatra che apre nei primissimi anni dell’Ottocento una clinica all’avanguardia in Argentina  per la degenza e la cura dei “pazzi”. I pazienti sono tutti rampolli di famiglie aristocratiche che per lavare l’onta sociale di un parente disagiato pagano profumatamente affinchè siano allontanati in un ricovero (inteso da loro  internamento puro e semplice) e spesso gli stessi sono anche prelevati a domicilio. 
La trama si dipana intorno al diario di Real che racconta di un viaggio quasi dantesco nella pampa per condurre in clinica un singolarissimo assortimento di pazienti. Le anime inquiete che costituiscono la carovana saranno traghettate attraverso le desolate vastità delle praterie argentine, un paesaggio capriccioso e imprevedibile, l’inseguimento di un orizzonte sfocato al cospetto del quale anche i confini tra pazzia e normalità diventeranno tremuli. Ognuno di loro sperimenterà un esilio da se stesso, specchiandosi in una natura spaccata, fredda e calda, tempestosa e immobile, arida e piovosa. Le loro sfaccettate personalità, timori e deliri, frenesie e gioie, si sfumeranno sotto un unico cielo di nuvole che corre su vite e deserti,  implacabile sulle loro teste, sani o malati che siano. Un cielo in continua evoluzione, capriccioso e inclemente, a rivelare che qualsiasi certezza può correre via in qualsiasi momento.
Ho trovato molto bella soprattutto la parte centrale del racconto, il viaggio in sé, arricchito dalla descrizione dei pittoreschi pazzi (ognuno meriterebbe un libro): un catatonico che esprime con le mani un mondo di pensieri, una suora ninfomane, un iperattivo, due fratelli in un universo ridotto di parole. Intorno a loro ruotano soldati, avventurieri, commercianti, prostitute, a formare una compagnia che condivide, vive e soffre, fa l’amore, litiga, affronta le catastrofi naturali e i banditi, agitandosi sotto quella volta che cinge il capo di chi ha ragione e di chi no (ed è facile confondersi in spazi che non hanno più confini). La solidarietà della solitudine. 

Real guarda la terra, il sole e le stelle: e scopre il nudo mistero di una vita sempre pulsante, che si affanna testardamente senza che emerga un senso a chiarirne il perché.


“La Ragione non sempre esprime il meglio dell’umanità”: eh, Sudamerica ….

martedì 27 giugno 2017

A Sud di noi


Riaprire i battenti della libreria con 40 gradi che picchiano sulle imposte: il clima sudamericano impone una violenta voglia di dare fiato a parole roventi, alito caldo che brucia le righe per vergare a fuoco certe passioni. 
Come quella (appunto) per la letteratura a sud del mondo. 

Che entri un po' d'aria, sebbene calda, e luce, per quanto spietata, in farmacia: serve anche ad ammansire i sensi di colpa per le porte tenute chiuse per troppi mesi. 

Abbiamo la grande fortuna di lavorare tanto e di far ciò che ci piace: ci impegniamo con passione nelle nostre professioni, e le passioni, si sa, divorano tempo, forza e anima. Questo luogo resta uno dei posti del cuore, sempre ed ovviamente, ma paga lo scotto di condividere il tempo residuo e risicato con il lavoro e le nostre letture. 
Speriamo comunque sempre che i nostri post continuino ad allietarvi, seppur discontinui. 


Bentornati e buona estate. 
E&V


domenica 2 aprile 2017

Bibliopillola n. 18 Per radici mobili



É complesso, difficile, forse anche delicato parlare di “radici”. Mi riferisco ai luoghi d’origine di ogni individuo, sia reali che culturali: il paese o la città in cui si è nati o cresciuti, le tradizioni che ci hanno insegnato o che ci hanno forgiato, la cultura alla quale riconosciamo una appartenenza.

E’ innegabile che la formazione del sé faccia riferimento a paesaggi, strade, urla nei cortili, campagne o montagne, boschi o borghi marinari, parole e storie raccontate, norme assimilate e regole di vita tramandate, dèi e demoni di religioni e miti popolari. E’ curioso sbrogliare i nodi che queste radici compongono se la vita ti mette a percorrere strade diverse o ti fa interagire con persone che vengono dai mondi più disparati: penso a me stessa, alla mia Puglia che è un coacervo di costumi contadini, di superstizioni di gente di mare, in cui si parlano dialetti che mischiano arabo, francese, lingue dell’est; penso ai miei nonni beneventani (un partenopeo e una mezza Rom), a quelli baresi, uno normanno (rosso di carnagione e alto come un vichingo) e l’altra corvina e con gli occhi nero carbone come un’andalusa (ché abbiamo avuto anche gli spagnoli qui giù). 

Penso a quanto, sebbene si percorrano svariati itinerari, sebbene ci si trasferisca spesso o si viaggi molto, si avverta sempre il bisogno di un ritorno a casa, che sia essa intesa in senso letterale o come un luogo dell’anima in cui ci riconoscersi e continuare a costruirsi. 

Ho scelto questi due titoli come viatico, perché le radici mobili aiutano a guardarsi con più tolleranza e a non farsi irretire da confini troppo netti, come in generale sarebbe il caso di fare quando ci si interroga sulle proprie origini e in particolare in tempi come quelli attuali, che tendono ad una regressione verso i particolarismi e i micronazionalismi. É sempre un bene sottolineare che l’identità è essa stessa frutto di pluralità, che la complessità è una risorsa per il singolo individuo e le genti, che le tessere di questi puzzle storici spesso le rinveniamo scavando altrove.

Questa bibliopillola scaturisce dunque da due libri scritti da pugliesi, in cui le trame riconducono entrambe alla necessità di imparare, nella vita, a radicarsi, sradicarsi, ri-radicarsi nuovamente (il risultato è cacofonico, me ne rendo conto). 

Il che avviene una volta imparato che si porta dentro tutto ciò che serve per rimettere su, ogni volta, casa e se stessi. 


Dirce Scarpello, L’attrazione dei talenti, Les Flaneurs. 


Due storie di donne che si sovrappongono incontrandosi, una pugliese ed una albanese, vite diverse ma affacciate su quella stretta lingua di mare che è l'Adriatico. 
Due donne che soffrono a causa delle loro stesse radici, riconosciute, negate, che le respingono, dalle quali si allontanano: fino a che non intuiscono che non sono (solo) i luoghi da cui nasci a fare ciò che sei. 
E’ sempre necessario ricostruirsi, affidarsi a se stesse, comprendere e coltivare un talento, un proprio modo di essere profondo che ci riconcilia con il mondo ovunque si decida di viverlo: un habitus che occorre cucire e indossare, che riconosciamo come ciò che sappiamo fare bene e ci piace, e che diventa insieme capacità d’ascolto e di contatto. Per tirare fuori un’idea, un progetto di sé che guida e sorregga, è imprescindibile ascoltare ed ascoltarsi. Farsi fare le domande, azzardare le risposte. 

Ho apprezzato molto la bella riflessione sulla comunicazione con gli adolescenti, che nella narrazione emerge dal rapporto tra una delle due protagoniste e la giovane nipote: se solo ogni tanto prestassimo davvero l’orecchio, porgessimo una mano sotto forma di domanda, abbattessimo quelle convinzioni inattaccabili dentro le quali ci siamo murati a costo di non intaccare una presunta felicità giornaliera.

Entrambe le donne, così lontane tra loro, condividono la scoperta che occorre imparare a tornare sempre su sé stesse, a non chiudere mai definitivamente le porte, perché anche i ritorni possono essere nuove partenze; imparano che riconoscersi significa anche abituarsi a guardare immagini diverse in specchi distorti, perché si cambia e cambiano le cose e le persone intorno a noi; imparano che “radici” possono anche essere gli incontri casuali e fortuiti.
E i talenti, come i dolori, si attraggono e si riconoscono. 

Una scrittura aggraziata e colta, una lettura che fa da specchio, che muove i personaggi fra il capoluogo, le masserie brindisine e il salento, luoghi di origine e adozione dell'autrice.


Davide Grittani, E invece io, Robin Edizioni 

“In alcuni casi occorrono i titoli di coda per ricordarsi di essere ancora vivi”: la definizione perfetta per il protagonista di questo romanzo. Viviamo innumerevoli The End nel corso delle nostre esistenze e ci sorprende che siamo capaci di rimettere insieme pezzi e cocci, ogni volta. Anche se ad un certo punto può accadere che ciò che ne venga fuori non corrisponda più a noi stessi.

Un giornalista settentrionale deluso dalla sua professione e con in mano un bilancio non esaltante del proprio mezzo secolo di vita, tra un matrimonio fallito e una incapacità esistenziale di definirsi, decide una emigrazione al contrario: accetta il trasferimento da Borgo Ticino, frazione di Pavia, in una piccola redazione meridionale. E come se avesse bisogno di “scendere” ulteriormente alla ricerca di qualcosa che più in fondo non potrebbe stare, progetta un viaggio in Sudamerica come regalo di rappacificazione con se stesso per festeggiare (o forse no) i suoi cinquant’anni. 
Fra il Tavoliere delle Puglie e la pampa argentina si ritroverà nudo, di fronte ad un vaso di Pandora definitivamente scoperchiato, in una resa dei conti senza più certezze e punti di riferimento, tradito dalle persone che riteneva più vicine e da una professione che gli si rivolta contro. 

Un’odissea tra l’epica e la gag, un antieroe sballottato tra sirene-calunnie e ciclopi che gli portano via tutto, che suscita immediatamente simpatia ed empatia; una spietata critica ad un giornalismo che si è mortalmente prostituito ignorando la verità dei fatti, ai luoghi comuni su un meridione brutto, sporco e cattivo, ad una politica che si autoproclama “quella ancora pulita” sulla pelle dei detrattori massacrati a suon di scoop scandalistici. 

In un sud che è luce spietata, a contatto con la terra, le parole che possono fissare e uccidere vengono sostituite dai gesti, un modo di esprimersi che offre interpretazioni ampie, ariose, come il continuo gesticolare delle mani; in un sud che ancora vende sogni si scopre l’unica verità possibile, che le sconfitte e le sofferenze regalano la bellezza del perdere che ci ricorda la forza dell’umiltà. 
Perché sempre da lì si deve ripartire, dal basso, anche lasciando ogni tanto i conti in sospeso, senza necessariamente determinarsi, riconoscersi in qualcosa di definitivo, attribuirsi ruoli, etichette, luoghi.

Scrittura correttissima, pulita e densa allo stesso tempo. Si è spinti ad un ritmo di lettura veloce per la prosa accattivante (alcuni tratti sono esilaranti) ma ogni tanto ci si deve fermare a riflettere sulle ultime righe. Una penna consapevole e leggera per un racconto che ha quasi del filosofico. 


Bello sapere, mentre si scrive, che per la prima volta il libro di un foggiano ("sono nato a Foggia, a Foggia vivo e sempre qui torno" cit.) è iscritto al Premio Strega 2017.

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