lunedì 6 aprile 2015

Bibliopillola n. 15 - Contro i luoghi comuni

Qualcuno ha scritto un libro con un titolo davvero accattivante. Credo si tratti di un fumettista.
I luoghi comuni sono sempre molto affollati
Questo post è una bibliopillola contro i luoghi comuni; idee e opinioni, valori, giudizi condivisi da una larga parte di individui, gruppi sociali, comunità o addirittura interi popoli (possono comprendere anche credenze e folclore) anche se non sempre in modo consapevole. Non sempre, no. Le idee tendono a consolidarsi con una facilità impressionante, eppure dovrebbero essere quanto di più mobile, variegato, instabile esista. Non foss'altro che per evitare sostrati ideologici tendenzialmente pericolosi. Vero è, però, che i luoghi comuni, o gli stereotipi, rappresentano anche la possibilità di una discussione feconda e argomentata in una comunità di un tessuto di credenze.

Fatta questa premessa, voglio parlare di un libro che sta spopolando. In testa alle classifiche di vendita, recensito in ogni dove: Jessie Burton, Il Miniaturista. 

L'ho ricevuto un po' perplessa, l'ho aperto un po' scettica. Diffido delle classifiche. Non per una sorta di snobbismo da intellettuale, ma perché tendo a osservare, sperimentare, verificare su me stessa prima di condividere alcun che, fosse pure un'opinione.

Non voglio scrivere molto della trama, né dei personaggi. Dirò che mi ha emozionato e che (stupidina, io) ho pianto per tutte le ultime 10 pagine. Sarò ancora una lettrice ingenua o semplicemente sto invecchiando? Non so, quello che di certo riconosco è che anche per narrativa e letteratura contano i gusti personali, le corde che ognuno di noi consente a certe pagine di far vibrare, i vissuti individuali e le preferenze stilistiche. Sarà che racconta una città che ho molto amato, che ho vissuto e, nonostante si tratti di una rivisitazione seicentesca (merita anche l'accuratezza storica della descrizione, a mio modesto parere) l'ho ritrovata e riconosciuta; sarà che dipinge il mondo nuovo, variopinto e in sé trasgressivo, sinonimo di libertà e scoperte nuove, delle compagnie di navigazione; sarà che ogni personaggio, la giovane sposa, il tenebroso commerciante, la cognata misteriosa, servitori e serve, governanti e preti è tratteggiato con abilità, calcandone le caratteristiche, talvolta caricaturandole, ma forse proprio per farne risaltare l'aspra umanità; sarà che la trama non l'ho trovata affatto scontata, che mi ha tenuta sospesa fino all'ultima pagina, che ha riservato sorprendenti colpi di scena; sarà che anche in un intreccio anche un po' fantasmagorico (e comunque non ridicolo) ciò che spicca sempre è la profonda umanità di ognuno dei protagonisti, sia quella buona sia quella cattiva.
Per essere un best seller, un buon libro. Un bel libro.


Ps: oggi ricorre il primo compleanno di questo blog. Io e la mia socia Valeria abbiamo costruito questa Farmacia con le nostre emozioni, le aspettative, i progetti, l'entusiasmo che ci appartengono: nonostante si gestiscano vite complesse, come tutti, del resto, proviamo a non tenere chiusi cassetti di sogni, a soffiare sulle nostre curiosità e a tenere viva la voglia di continuare a sapere, provare, scoprire. 
Nessuna delle due ama i bilanci, e non ne vogliamo fare. 
Sappiamo che l'entusiasmo sopravvive agli impegni, ai tiri mancini del tempo, a tutto ciò che ci scorre intorno e che, anche se non gestiamo direttamente, fa comunque, delle nostre vite, le nostre. 
Continueremo a tenere aperta la nostra Farmacia, ad arieggiare i locali e a invitare gente. 
Date, scadenze e tempi prefissati spesso rappresentano un problema, ma va bene così: sappiamo che non riuscire a fare ciò che si vuole nelle precise modalità che si sognano fa parte del nostro essere umane. 
E a quello continuiamo a tenerci, sempre.


Grazie a tutti per questo anno insieme. Grazie per quelli che verranno.

martedì 17 febbraio 2015

Elogio della Leggerezza

Solo chi è sceso in profondità può apprezzare davvero la superficie.

Non sempre la leggerezza è mancanza di serietà, frivola noncuranza o scarsa consapevolezza. Richiede un apprendistato, un esercizio costante, una determinazione che solo chi ha dedicato e speso energie per affrontare e sopportare oneri gravosi sa cosa vogliono dire. Imparare a far fronte alle mille difficoltà della vita può anche significare trovare porti sicuri nei quali rifugiarsi, protetti da moli che fermano i marosi e placano le acque. Luoghi dove ci si leccano le ferite e si rasserena l'animo, sedati da una quotidianità tranquilla, bonaria e semplice. Abitati da personaggi schietti e spassosi, che portano con sé i mille difetti ma anche le grandi virtù della gente di provincia, che se anche gioca malignamente con i pettegolezzi,  con la stessa convinzione non si tira mai indietro se c'è da offrire una spalla. O aiutare concretamente. Borghi dove, lontani dal trambusto della metropoli che soffoca e stritola, si può addirittura provare a realizzare i propri sogni, aprire botteghe, locande, biblioteche alternative, organizzare festival letterari come se fosse un evento di importanza internazionale, farsi coinvolgere, insomma, da una progettualità esistenziale che mette in pace con se stessi e con i mille lati oscuri della vita. Di ogni vita. Perché ognuno ne ha, e se li porta dentro. 
Ho prima frequentato Borgo Propizio, una amena località con tanto di castello e fantasmi, rigenerante e vivace: un paesotto popolato da persone normalissime, che rappresentano la condizione umana di chiunque, da chi cerca l'amore eterno, a chi realizza i propri sogni aprendo una latteria un po' speciale, a chi deve mettere fine a matrimoni sbagliati. E sembra che il luogo che le accomuna funga da catalizzatore di positività per ognuno di loro.  






E le stelle non stanno a guardare continua ad avere il Borgo come protagonista principale e abitanti vecchi e nuovi a fare da contorno: una donna ferita che riemerge dalle macerie di se stessa, improbabili scrittori a caccia di successo, anziane signore innamorate di cantanti. L'aura che li coinvolge tutti è una benevola condivisione che trasforma i dolori in un sorriso comune, che infonde fiducia e insegna speranza, uno sguardo quasi poetico sull'esistenza. Lo stile disinvolto e lieve di Loredana Limone ci regala una sensibilità che sembra leggera ma non lo è. Perché fa sorridere, distende, mette di buon umore insegnando in maniera elegantemente garbata che la vita può anche essere presa meno seriamente.

domenica 8 febbraio 2015

Su la maschera!



Il Carnevale, festa che pare risalga addirittura a 4000 anni fa, è un tema molto frequentato in materia di saggi, storiografici, antropologici e filosofici. Mescola insieme radici pagane, contadine, celtiche, religiose, mediterranee. La storia medievale, che è quella più diffusa, cita i primi riferimenti a questa festa alla fine dell'anno 1000, grazie ad un documento del doge di Venezia. Nel periodo da ottobre fino alla fine di febbraio, popolari e nobili in maschera si mescolavano per calli e campielli, amalgamandosi in una massa indistinta e uguale che annullava le rigide distinzioni sociali e creando spesso scompigli che indussero le autorità a vietare di coprirsi il volto (per permettere il riconoscimento). Gli aspetti di questa bellissima festa sono variegati e complessi e tutti in subordine rispetto all'idea principale che la anima: la "sospensione". Giorni di festa in cui non si lavora, in cui la routine è rotta e, soprattutto, rovesciata; l'ordine costituito sovvertito, trasgressione, eccessi ed infrazioni consentiti. Il contesto ludico rappresentava l'unico momento rigenerante per un popolo spesso oppresso da una società immobile e rigida, profondamente ingiusta e non egualitaria: non a caso l'assolutismo monarchico, il clero e la nobiltà pur ammettendolo (una apparente libertà controllata e limitata a pochi giorni in un anno aiutava comunque a conservare un equilibrio sociale a loro favorevole) hanno tenuto in forte antipatia il Carnevale. Un tempo dell'anima che celebrava, nell'antichità, la rinascita e la rigenerazione della fine dell'inverno; un universo simbolico di licenze, di distruzione di un ordine opprimente, di caos liberatorio, dove indossare un volto che non fosse il proprio significa tanto celare la propria reale condizione quanto assumerne un'altra agognata.



Maschera e riso sono due potenti simboli sovversivi e oggi, ancora oggi e più che mai oggi, val la pena ricordarsene. Mutare aspetto, fingersi ciò che si vuole e non ciò che si deve, sbellicarsi dalle risate per spazzare via e alleggerire, scaricare ansie e frustrazioni, esorcizzare paure e fobie: una drammatizzazione che andrebbe favorita non solo ... semel in anno.


Per questa terapia collettiva ringrazio le seguenti letture, che in realtà mi accompagnano ormai da una vita, e non smetto, per mille motivi, di leggere e rileggere:

"L'opera di Rabelais e la cultura popolare", Michail Bachtin (1965);

"Totem e Tabù", Sigmund Freud, 1913;

Mircea Eliade, "Il mito dell'eterno ritorno", 1949;

"Il ramo d'oro", James George Frazer, 1915.

giovedì 29 gennaio 2015

Bibliopillola n. 14 - Per non perdere le sfumature di colore

Ieri sul gruppo fb si è parlato di un po' di emozioni, di quelle nate dai libri e dei motivi per cui a volte le sbrodoliamo subito addosso a chiunque ci capiti a tiro e altre volte facciamo fatica a raccontarle anche solo a noi stessi.
Altre volte non è nemmeno ben chiaro di quali emozioni si stia parlando.
Ci sono emozioni che non vogliamo riconoscere? Altre che conosciamo bene e ci sembrano poco socialmente presentabili?

Queste, ed altre, domande me le faccio da un po', per l'esattezza da quando ho terminato di leggere La cicala dell'ottavo giorno (Mitsuyo Kakuta, ed. Neri Pozza) e mi sono accorta di non riuscire a scriverne e di aver finito il libro emozionata, ma con la cosiddetta faccia a punto interrogativo.
Emozioni, si, ma quali? E per chi?

La cicala dell'ottavo giorno è il racconto di una donna che impazzisce, di una bimba sequestrata e separata dai genitori, di una famiglia che si ricostituisce e a poco a poco va avanti, di una due tre donne in una cultura come quella giapponese dove ancora agli uomini è permesso tutto e alle donne meno.

È un libro che ti spinge a prendere posizione, a schierarti da una parte o dall'altra, e, una volta schierato, a sentirti scomodo,  scomodissimo, e a ribaltare posizioni e convinzioni.
Perché nel libro le cose non sono così nette e chiare come si vorrebbe, i personaggi non sono buoni o cattivi come nelle favole e i colori non si limitano al bianco o al nero, ma obbligano a considerare tutte le infinite sfumature di colore, anche quelle sporche e bruttarelle che non vorremmo nell'arcobaleno.

Riuscireste a capire a chi si riferiscono, o di chi parlano, questi brevi estratti? Chi sono le vittime, chi i carnefici? Chi è buono o chi è cattivo?

  • Di certo non aveva mai visto così tante stelle in vita sua. (...) Le città, il mare, le montagne, il cielo infinito, la luna piena, le stagioni, i treni, gli alberi e i fiori, i luna park, gli animali, i supermercati, i negozi di giocattoli... sono tutte cose che ha potuto vedere solo nei libri illustrati. Non ha potuto conoscere e sperimentare queste cose e tante altre ancora. (...) D’ora in poi ti restituirò tutto, piccina mia (...) Ti ridarò il mare e le montagne, e anche i fiori a primavera e la neve durante l’inverno. E ti darò elefanti così enormi che non riuscirai a credere ai tuoi occhi e cani in fedele attesa dei loro padroni. E poi tante favole dal finale struggente e musica talmente bella da farti sospirare di meraviglia.
  • Essere svegliata tutte le mattine e trovare la colazione pronta in tavola; avere dei buoni amici con i quali giocare ogni giorno all'aria aperta e con i quali ridere e chiacchierare durante il pranzo; essere presa per mano alla sera da una madre premurosa e fare lunghe passeggiate insieme a lei, una madre capace di prepararti una cena gustosa sempre alla stessa ora e di leggerti le fiabe fino ad accompagnarti nel dolce mondo dei sogni; vivere in una casa pulita e ordinata, con tanto verde all'esterno, in un posto dove le persone ti salutano e ti sorridono quando le incroci per strada e dove il mare è raggiungibile a piedi: ecco ciò che avevo perduto, la vita di una principessa in una terra lontana.
  • Lui entrava e nostra madre andava via, come a darsi il cambio. Non accadeva esattamente tutte le sere, ma le volte in cui usciva superavano di gran lunga quelle in cui restava a casa. Per un bel pezzo io e Marina continuammo a pensare che lavorasse anche di notte. In seguito ci rendemmo conto che andava a divertirsi con le amiche: uno sparuto gruppo di donne di mezza età che frequentava i bar della zona, qualche discoteca e i karaoke, che giusto in quel periodo cominciavano a godere di una certa popolarità. «Non posso farci nulla» mi confessò una volta, all’epoca in cui frequentavo la scuola media, «ma ogni volta che ti guardo mi viene in mente quella donna. Il solo ricordarmi di lei mi spinge a odiare sempre di più tuo padre. Perché devo essere soltanto io a soffrire? Non ce la faccio a restarmene chiusa in casa, ho bisogno di uscire, di svagare la mente
Io mi ero fatta un'idea, poi l'ho cambiata, poi l'ho cambiata ancora e ad oggi continuo a chiedermi se l'idea è davvero così confusa o se, semplicemente, è così contraria ad ogni normale morale da non poter essere accettata.

Fonte: Editore




lunedì 26 gennaio 2015

Bibliopillola n. 13: Per la Memoria, tutti giorni!


Foto personale

Lavorando con la storiografia, ho a che fare spesso con le ricorrenze; in genere, non mi piacciono. Non perché sia diventata una fredda e lucida studiosa di fatti ed eventi: al contrario, temo che circoscrivere il ricordo di un episodio ad una specifica data potrebbe ridimensionare ad una sola chiave di lettura avvenimenti che invece necessitano di contesti ampi di interpretazione, al di là di barriere, etnie, religioni e ideologie.
La seconda guerra mondiale, come tutte le guerre, è stata un concentrato di orrori; nel 1944 è stata coniata la parola genocidio applicata alla Shoah e recentemente la definizione è stata aggiornata a "una forma di massacro di massa unilaterale con cui uno stato o un'altra autorità ha intenzione di distruggere un gruppo, gruppo che è definito, così come i suoi membri, dall'aggressore" (Frank Chalk e Kurt Jonassohn, 1990). La deportazione, l’eradicazione, l’esecuzione pianificata ha riguardato gli armeni, i cambogiani, i tutsi, i bosniaci.

Il 27 gennaio di settanta anni fa le truppe sovietiche dell’Armata Rossa giunsero nella città polacca di Oswiecim scoprendo il campo di concentramento e liberandone i superstiti. L’apertura dei cancelli di Auschwitz rivelò compiutamente l’orrore del genocidio nazista. Ci sono stata con i miei ragazzi nel 2009: vedere con i propri occhi il campo, le baracche, le camere a gas è qualcosa che non si può riferire a parole.
Ciò che voglio testimoniare anche io, oggi, è quello che ritengo il senso più profondo della tragedia ebraica e di tutte le tragedie che ogni guerra contemporanea ha portato e porta con sé: la banalizzazione del male.
Fonte: Editore

Nel 1961 si tenne il processo all'imputato Otto Adolf Eichmann, un tenente-colonnello del regime nazista che aveva coordinato, in tutta Europa, l'organizzazione dei trasferimenti degli ebrei verso i vari campi di concentramento e di sterminio. Processato da un tribunale israeliano, nella sua difesa tenne a precisare che, in fondo, si era occupato "soltanto di trasporti”. Il resoconto di quel processo fu pubblicato due anni dopo nel libro "La banalità del male" di Hannah Arendt. Ciò che emerge in maniera sconvolgente dagli atti è che Eichmann sembrava essere una persona “normale”: così commenteranno tutti coloro che avranno a che fare con i burocrati del Reich, uomini “normali” che però furono capaci di compiere atti mostruosi. Si difendevano dietro il grande scudo della cieca obbedienza alle leggi. Agivano rispettando ordini.

Dietro questa "terribile normalità" capace di commettere le più grandi atrocità che il mondo avesse mai visto, la Arendt rintraccia la questione della "banalità del male" che sta nella irriflessività. Uomini come Eichmann ce ne furono tanti e quei tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano terribilmente normali. E questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, poiché implica - come fu detto e ripetuto a Norimberga dagli imputati - che questo nuovo tipo di criminale
commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male. 
Il male diventa banale quando si diventa incapaci di pensare. Che non vuol dire essere stupidi, ma sottostare a cambiamenti di valori, di regole, di modi di agire senza fermarsi a meditare. Significa aderire senza riflettere, essere dislocati da forme di potere e accettarlo perché (banalmente) non ci si attarda ad emettere un giudizio.


Obbligarsi a riflettere. Tutti i giorni. Questo è per me il senso di date come quella odierna.

domenica 25 gennaio 2015

Bibliocaramella n. 1 Per regalare le parole

Ci sono momenti nella vita di ogni persona unici ed irripetibili: il raggiungimento di nuovi traguardi, amiche che si ritrovano dopo anni, occhi luccicanti di bimbi che crescono.
Spesso alcuni di questi momenti sono legati ad un libro ed è per questo che, fortemente convinta del potere terapeutico della lettura, sono anche convinta che, in determinati momenti, qualsiasi libro possa essere terapeutico, anche uno che la critica consideri mediocre.
E a volte accade che momenti indimenticabili si leghino a libri indimenticabili e meravigliosi di per sé.
C'è un paese dove le persone non parlano quasi mai.
È il paese della grande fabbrica delle parole.

domenica 18 gennaio 2015

Bibliopillola n.12 - Integratore vitaminico del Sé


Come ho scritto in una recensione, non mi capitava da un po' di chiudere un libro con la sensazione di aver avuto a che fare con la letteratura.
Una penna seria, autorevole, un implacabile faro proiettato su una coscienza messa a nudo.
Il protagonista non è ovviamente un eroe, ma ha un che di eroico la sua normalissima esistenza; a molti risulta insulso, inetto, addirittura esasperante. Sembra che rimanga lì a vedersi scivolare una vita addosso, incapace (perché spesso abulico) di dare una piega diversa agli eventi, di imporsi, di arrabbiarsi. Eppure non si tratta di un individuo inconsapevole, poiché riflette su ogni dettagliata situazione, scandaglia gli animi di tutti coloro che lo circondano, spesso supponendo fatti e azioni, con ineluttabile rassegnazione. Una vita che definiremmo più che ordinaria, banale; la sua indifferenza snerva.
Certe volte, la mattina, quando si faceva la barba, guardava la sua immagine riflessa nello specchio e non si riconosceva affatto in quel viso che ricambiava stupito il suo sguardo, in quegli occhi chiari che spuntavano da una maschera grottesca
Fonte: Editore


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