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martedì 12 luglio 2016

Bibliopillola n. 17 - Integratore per la paura della vecchiaia

Fa caldo, la debolezza incombe, la stanchezza fa danni, l'umidità arrugginisce... e poi ti capitano questi libri: di questo devo scrivere, anche se siamo ferme da tanto, anche se apparentemente siamo un po' arrugginite, appunto.
Il Ferro fa la Ruggine.
E’ forte, non si spezza mai, può piegarsi e curvarsi, lasciarsi corrodere da una crosta arancione, ma non perde l’anima fiera e robusta, la cui tenacia sta nella consapevolezza di un istinto proprio, felino e selvaggio, che non smarrisce lo slancio, che non accetta mai di riempire la propria vita con quella degli altri. Ruggine è la vecchia protagonista di questo romanzo di Anna Pignatelli, un’esistenza solo all’apparenza piatta (ma nessuna mai lo è, ogni vita può essere sfaccettata e imprevedibile anche se si snoda nello stesso posto) che l’ha logorata, inarcandola e temprandola, regalandole un’indulgenza indolente di fronte alla quale si china il capo.
Piegata ma non vinta.
Vive in un borgo di vecchi, fatto di tutte le cattive rughe dell’umanità, che lei imbelletta ostinata sopportando ogni oltraggio con la sua lentezza; lo attraversa con il passo lieve godendosi la grazia incantevole del mondo intorno che l’incapacità di vivere ci ha sottratto. Ama la vita nonostante tutto, e di Male ne ha provato e continuerà a provarne, ama gli uomini non perdendo mai l’interesse per loro, quasi fosse senza tempo ed eterna, immortale, continuando a tenere accesa la curiosità, aiutandosi con il vino e con l’oblio della mente, con l’inossidabile (quello sì..) amore per la naturale bellezza della natura intorno e del suo perpetrarsi attraverso le stagioni. Si lega a personaggi diversi come lei, estranei e stranieri alla meschinità e alla superstizione, anche a costo di essere tradita per l’ennesima volta, anche a costo di non ricevere l’aiuto che si aspetta da chi vive solo le strade. La sua forza è invidiata, odiata, come accade a chi resta per sempre risentito nei confronti dell’esistenza trasformandola in una ostilità che inchioda i Cristi alle croci non solo una volta l’anno.
Ferro è il suo gatto. Le loro vite sono legate indissolubilmente, è l’animale a tenerle sempre davanti agli occhi la forza del piacere e della vittoria, dell’irriverente andarsene per notti impossibili a ferirsi in zuffe per accoppiarsi, del placido riposo degli istinti appagati; è un memento costante la sua compagnia, quando accetta di trattenersi su un cuscino e rimangono a guardarsi nelle pupille, perché quel silenzioso parlarsi significa proprio che la vita s’impone con il sangue e con la lotta e ogni giorno è un’esperienza indicibile, anche se si resta fermi a fissare le fiamme del caminetto.
Le altre figure che popolano il romanzo, per lo più grette e sordide, sfilano intorno; il figlio anzitutto, ma non se ne può parlare, fa parte del male della vita; il marito defunto, un fantasma più vivo da morto di ciò che è stato invece in vita; il padrone di casa, la professoressa dirimpettaia, il bottegaio, una ragazza che non saprà decidere se accettare la sfida che silenziosamente l’anziana donna le ha lanciato; degni di nota il parroco e lo zingaro, messi al bando come lei dalla comunità raggomitolata su se stessa.
La scrittura della Pignatelli è magnifica, le parole scelte ad una ad una, d’una bellezza cesellata che non oscura gli animi che descrivono, anzi, li fa brillare di luce propria, non distrae, consente di guardare ai personaggi come se li avessimo di fronte, a scrutare nelle pieghe del viso e nei colori dei paesaggi circostanti. Una penna perfettamente dosata, limpida e densa ma senza esagerazioni.
Quando ho chiuso il libro l’ho dedicato mentalmente a mia nonna: zingara costretta ad adattarsi, a comprimere una bellezza offensiva, senza perdere però mai l’attaccamento ad una vita che l’aveva offesa (e terribilmente) molteplici volte; vita che ha amato talmente tanto che l’ultima volta che l’ho vista, e non volevo trovarla lì, con i lunghissimi capelli sciolti sul letto e una mano sul seno, le ha regalato un sorriso lieve e sornione sul volto.
Piegata ma non vinta, si è potuta permettere di morire da sola.

Non amo i superlativi, ma questo romanzo è bellissimo.

Bibliopillola per combattere la paura di invecchiare e per chi, nonostante tutto e tutti nel mondo e nella vita vuole crederci fino in fondo.

Allora Gina chiese: "E che sarebbero i Balcani?".
"Sono montagne nere. C'è solo una cosa più impressionante di loro: la strada. Quella infinita che unisce i paesi, che va dal mare ai monti, dalle pianure alle foreste. Io la conosco, la strada. Nella strada ci si imbatte nella verità". Poi aggiunse: "La parola detta per via è più vera, meno ingannevole".  
(Ruggine, Anna Pignatelli. Fazi Editore)


domenica 8 novembre 2015

Emozioni in Farmacia: La Paura




La paura non può essere senza speranza né la speranza senza paura.

(Baruch Spinoza)


Buuuuhhh!!!!
L’emozione più frequente, temuta, controversa, tra quelle che si provano quotidianamente. In genere la si rifugge, si cerca in tutti i modi di evitarla eppure … talvolta la si cerca, la si provoca.
Cosa avrà mai, di così potente, la PAURA??


Legata alla difesa e alla conservazione e fondamentale per il processo evolutivo, la paura è prodotta da una straordinaria architettura che partendo dalla sensorialità coinvolge tronco encefalico, corteccia cerebrale, ippocampo e amigdala. Un movimento colto con la coda dell’occhio mentre si cammina in una strada buia e deserta viene trasmesso e confrontato con quanto si ha in memoria per provare ad interpretarlo. Nel frattempo l’attenzione viene fissata  sul punto dove ci è sembrato di vedere qualcosa e un sistema d’allarme “neurotrasmette” (producendo noradrenalina e dopamina) segnali che ci fanno tendere i muscoli, aumentano la reattività complessiva, accelerano il battito cardiaco, rallentano la respirazione, mettono in tensione stomaco ed intestino. Lo scopo è preparare l’organismo alla fuga (o cercare un luogo dove nascondersi, si pensi alla temporanea “paralisi” che spesso la paura provoca)  mentre ci si concentra sulla valutazione della minaccia.

Ma non si tratta solo di uno stato fisiologico. Il sistema emotivo è legato alla ragione umana, si interseca con le nostre capacità logiche: pensiero ed emozione (l’antico dualismo mente e cuore) sono strettamente interconnessi.
Il pensiero filosofico, ad esempio, è figlio della paura. Nasce per scongiurare il più antico degli sgomenti, l’origine di tutte le fobie: la mancanza di conoscenza. Non sapere cosa ci possiamo aspettare, non comprendere uno sconosciuto che ci si avvicina, non riconoscere ciò che ci circonda, queste sono le radici di ogni disagio esistenziale. E’ dunque sempre originata da ALTRO da sé? Ha sempre un oggetto?
Si può anche avere paura di qualcosa di indeterminato, di non specifico: della mancanza di senso, ad esempio, della infinita serie di possibilità che si aprono davanti al nostro agire e di fronte alle quali non sappiamo che fare. La paura al cospetto di se stessi è chiamata angoscia. Camminando lungo un sentiero molto stretto, sul ciglio di un burrone, si ha paura di scivolare o di essere colpiti da un masso e quindi di perdere l’equilibrio o di uno smottamento del terreno. Ma si prova angoscia di fronte alla possibilità, per quanto remota, di decidere consapevolmente di lanciarsi giù nello strapiombo: è pur sempre una fra le infinite eventualità contemplate dalla nostra libertà di azione. Dunque l’angoscia si prova davanti alla propria incapacità di fare le scelte giuste: è una condizione umana inevitabile, tuttavia, perché ci fa prendere consapevolezza della nostra precarietà, dei nostri limiti e (paradossalmente) anche delle nostre potenzialità. Si prova angoscia di fronte alla propria libertà, essa sì, infinita, al contrario della nostra esistenza.

Rimediare alla paura e all’angoscia è un compito filosofico: l’attribuzione di senso (argomentazioni, spiegazioni, dimostrazioni, costruzioni di valori) esorcizza il malessere, l’ansia, i timori. La stessa riflessione sulla paura squarcia le ombre, illumina l’immagine di se stessi di fronte allo specchio, inducendo alla accortezza e ricordandoci la nostra vulnerabilità. Non riconoscere questa emozione come un tentativo di scongiurare l’incapacità di trovare una risposta a tutto è rischioso, può generare superstizioni, falsi ideologici: storicamente la paura è uno strumento di potere. Va invece trasformata in uno mezzo per porsi alla ricerca di se stessi:  non è detto che ci si trovi, ma il cammino vale comunque la pena.

Questo potrebbe essere il motivo per cui spesso cerchiamo la paura. Guardiamo film horror, leggiamo thriller e noir, saliamo su impervie montagne russe. Cosa ci spinge a provare un’emozione che di solito rifiutiamo, a farci paralizzare dallo sgomento, a provare i brividi dell’adrenalina? Proprio la necessità di continuare a sentirci vivi. Nonostante tutto.

Proporvi delle bibliopillole emozionali è un compito arduo: scegliere libri che fanno semplicemente paura o che la fugano? Abbiamo pensato a dei titoli che esplorano diverse sfaccettature di questa emozione perché possano diventare strumenti per una consapevole prudenza. Su noi stessi, sugli altri, sul mondo.

Ora però attendiamo le vostre: vogliamo farci emozionare da voi, conoscere gli autori che vi hanno fatto accapponare la pelle o che vi hanno insegnato a gestire o a conoscere la paura... Il senso ultimo di questo lavoro sulle emozioni è proprio la condivisione.
Grazie e buona lettura.


Guy de Maupassant, L’Horlà 

La paura dell’irrazionale, lo spavento procurato da ciò che non rientra nel naturale, nell’umano. Archetipi senza tempo: fantasmi, presenze invisibili, il doppio di se stesso. Un horror elegante, racconti che fanno della letteratura qualcosa che genera spavento. Meglio di un giro nel Castello degli Orrori.
“Oh, il ricordo! Il ricordo, immagine dolorosa, immagine bruciante, immagine vivente, orribile immagine che fa soffrire mille torture!”



Harper Lee, Il buio oltre la siepe 

La più ancestrale delle paure: la diversità. Un libro meraviglioso che racconta il razzismo e il pregiudizio nell’Alabama degli anni Trenta: insieme il male e la cura negli occhi e nelle parole dei bambini che narrano.  
“Prima di vivere con gli altri, bisogna che viva con me stesso: la coscienza è l'unica cosa che non debba conformarsi al volere della maggioranza.”





Thomas Harris, Il silenzio degli innocenti 

Un pericoloso psicopatico ed una psichiatra: l’inquietante paura di guardarsi dentro, di lasciare che qualcuno acceda alle porte di ciò che abbiamo sepolto nell’inconscio.
"Me lo dirai quando quegli agnelli smetteranno di gridare, vero?", le grida da lontano.






Margaret Atwood, Il racconto dell’ancella 

Romanzo distopico ambientato in un futuro prossimo, una società totalitaristica in cui le donne sono sottomesse. La paura della libertà, delle scelte; e la facilità con cui questa paura diventa strumento di controllo e di gestione del potere.
“Esiste più di un genere di libertà, diceva zia Lydia. La libertà di e la libertà da. Nei tempi dell’anarchia, c’era la libertà di. Adesso vi viene data la libertà da. Non sottovalutatelo”





Per chi volesse approfondire, chi scrive ha letto, studiato, amato in tempi remoti e non:

Goleman D., Intelligenza Emotiva. Che cos'è e perché può renderci felici, Bur Rizzoli, 2011
Heidegger M.,  Essere e Tempo, Mondadori, 2011
Sartre J.P., L’Essere e il Nulla, Il Saggiatore, 2008
Kierkegaard S., Il Concetto dell’Angoscia, SE, 2007

sabato 7 novembre 2015

Biblioemozioni, si parte!

Iniziamo con i post-incontri su libri ed emozioni. 

Tratteremo in ordine sparso della Paura, della Rabbia, del Disgusto, della Sorpresa, della Gioia e della Tristezza, della magica relazione tra le parole scritte e i brividi addosso, giocando con molta serietà fra generi e sentimenti, tenendo insieme poeti, letterati, filosofi psicologi. 

I colori della vita non sono solo accesi e brillanti ma tutti insieme creano quell'arcobaleno che sono le singole esistenze. A tenere i fili dei nostri stati d'animo sono anche le parole: che l'omino dei palloncini ci accompagni in un viaggio che durerà diverse settimane e che, speriamo, vi coinvolga.


sabato 24 ottobre 2015

Della Paura (per ricominciare a parlare di libri ed emozioni)



Una camminata in paese mi ha ricordato che siamo vicini ad Halloween, festa amatissima dai bambini e ripudiata da molti adulti. Samhein era una festa celtica che le comunità contadine pagane celebravano in pieno autunno e coincideva con la fine dell'anno: il sole che tramontava sempre prima simboleggiava la morte definitiva dell'estate, aprendo le porte all'inverno con i suoi fantasmi e i suoi spiriti. ll papa Gregorio IV istituì ufficialmente (il giorno dopo) la festa cristiana di Ognissanti, il 1º novembre 840. L'importanza della continuità con il passato era evidente anche a quel lontano pontefice: la festa della rinascita dopo la morte, radici cristiane innestate su tradizioni pagane. Anche per questo ritengo che scherzare con mostri e diavoli non sia dannoso per nessuno, tanto meno per i bambini. Le paure in qualche modo vanno esorcizzate e uno di questi modi è imparare a conviverci.
Come possiamo esimerci dunque da un confronto con la letteratura horror? Genere spesso bistrattato, ritenuto minore, adolescenziale, di intrattenimento.
Beh, no. I libri horror raccontano le incursioni dell'irrazionale nella realtà, cancellano i confini, annullano le distanze fra il soprannaturale e il quotidiano. La repulsione e lo spavento derivano dalla drammaticità della destabilizzazione: le sicurezze acquisite vacillano quando riemergono paure ancestrali. 
Poiché finalmente stiamo per riaprire il blog con il tanto atteso ciclo sulle emozioni, che tratteremo percorrendo i binari paralleli della psicologia e della letteratura, mi sembrava il caso di risollevare questo genere che inaspettatamente può persino proporsi sotto forma di bibliopillole. Del resto l'horror attrae proprio perché catartico: quando si sperimenta la paura, che derivi da ossessioni e fobie comuni o dal sovvertimento della routine o dalla natura ambigua degli stessi rapporti umani, tornare alle proprie esistenze non può che offrire consolazione. 
Abbiamo scelto alcuni classici che andrebbero comunque letti, a prescindere dal fatto che piaccia o no il genere.

Amleto, William Shakespeare. La trama la conosciamo tutti; il mio vecchio professore universitario la definiva "la tragedia della volontà umana", annichilita dal fantasma della propria codardia più che da quello del genitore morto. L'incapacità di vendicarsi assumendosi le proprie responsabilità. In fin dei conti è ciò che rappresenta un qualsiasi fantasma: l'irrompere e il manifestarsi dell'incognito, e non c'è nulla che ci spaventi di più, poichè costringe  a prendere provvedimenti, ad agire, e non sempre siamo pronti. Esiste una paura più ancestrale? L'incanto dei versi del Grande Bardo ci mette di fronte a noi stessi, padri e figli perennemente in cerca di risposte. O forse no.








Dracula, Bram Stoker. Il padre di tutti i vampiri della letteratura (ahinoi, anche di quelli meno leggibili degli ultimi tempi), un archetipo potente che risale addirittura all'epoca mesopotamica e nel folklore europeo, dal Medioevo in poi, non si contano le testimonianze, le opere, i documenti che citano vampiri e vampirismi. In questa figura si sommano il terrore più venale della morte (il non riconoscere una persona amata poichè tramutata in una entità sconosciuta) e l'equazione ignoto=pericoloso che è la radice di qualsiasi paura. Scritto sotto forma di diario, il romanzo di Stoker è ispirato a Vlad III principe di Valacchia ed è una delle prove più belle della letteratura ottocentesca inglese: storia, mitologia e profonda conoscenza dell'animo umano in un'atmosfera cupa egregiamente tratteggiata.








Frankenstein, Mary Shelley. Il più potente esorcismo contro la morte è dare la vita. Creare, fingersi dei, forgiare esseri viventi. La tecnica al servizio di una scienza che sfida i nostri condizionamenti (il sottotitolo originale dell'opera è Il Prometeo moderno), ma la tracotanza finisce con l'essere punita. Creatore e creatura si scambiano spesso i ruoli, all'interno del romanzo, mischiando umanità e brutalità, desiderio di perfezione e deformità. Anche qui ci ritroviamo faccia a faccia con una delle più profonde paure umane: a cosa può portare sfidare i propri limiti?











Racconti del mistero, dell'incubo e del terrore, Edgar Allan Poe. Raccolta di storie fantastiche, misteriose, uno tra i primi gialli psicologici e l'antesignano dei romanzi polizieschi (anche Conan Doyle si ispirò a Poe per Sherlock Holmes). Solo per citare: La mascherata della Morte Rossa, I delitti della rue Morgue. Piccoli capolavori in cui il brivido è davvero avvertito fisicamente: del resto la paura è particolarmente legata alle percezioni sensoriali e la particolarità di quest'autore sta nella incredibile capacità di far letteralmente provare, addosso, le sensazioni dei personaggi. 
Il pozzo e il pendolo docet. 








Buona paura a tutti. Anch'essa serve. Come vedremo tra poco.

domenica 18 gennaio 2015

Bibliopillola n.12 - Integratore vitaminico del Sé


Come ho scritto in una recensione, non mi capitava da un po' di chiudere un libro con la sensazione di aver avuto a che fare con la letteratura.
Una penna seria, autorevole, un implacabile faro proiettato su una coscienza messa a nudo.
Il protagonista non è ovviamente un eroe, ma ha un che di eroico la sua normalissima esistenza; a molti risulta insulso, inetto, addirittura esasperante. Sembra che rimanga lì a vedersi scivolare una vita addosso, incapace (perché spesso abulico) di dare una piega diversa agli eventi, di imporsi, di arrabbiarsi. Eppure non si tratta di un individuo inconsapevole, poiché riflette su ogni dettagliata situazione, scandaglia gli animi di tutti coloro che lo circondano, spesso supponendo fatti e azioni, con ineluttabile rassegnazione. Una vita che definiremmo più che ordinaria, banale; la sua indifferenza snerva.
Certe volte, la mattina, quando si faceva la barba, guardava la sua immagine riflessa nello specchio e non si riconosceva affatto in quel viso che ricambiava stupito il suo sguardo, in quegli occhi chiari che spuntavano da una maschera grottesca
Fonte: Editore


domenica 5 ottobre 2014

Bibliopillola n.9 Contro la demotivazione

La mia socia di ApoTeche mi ha regalato un libro (abbiamo poca fantasia, è vero...) che mi è piaciuto molto. Ed è capitato, come accade spesso quando si riceve un libro da chi li ama, che mi arrivasse per le mani il titolo giusto nel momento giusto. Era appena iniziata la scuola, mi stavo adattando pian piano alla routine del calendario provvisorio, cominciando a frequentare le nuove classi di quest'anno e a riprendere il lavoro con le vecchie. E non facevo che pensare, in quei giorni di meno di un mese fa, a quanto mai come alla fine del passato anno scolastico il tanto bistrattato, calunniato, avvilito, deprofessionalizzato, irriso lavoro del docente mi fosse pesato tanto. L'ultima sessione di esami di stato l'ho vissuta per svariati motivi molto faticosamente  e conclusi gli orali ero sfatta. In tutti i sensi. Ma ci sono cose in cui non si può fare a meno di credere, nonostante, di anno in anno, aumenti progressivamente la fatica, lo sconforto, la disillusione, perfino il dolore.
Chi insegna oggi sa cosa dico.
Fa parte della nostra natura combattere per la sopravvivenza e ho imparato molti anni fa che questa non riguarda  soltanto il tenerci in vita nel senso strettamente biologico del termine.
Non ci basta vivere: o meglio, non si tratta solo di vivere, ma di vedere riconosciuta ed espressa la possibilità di essere in qualche modo se stessi. Il che presuppone una lunga e mai conclusa ricerca di una definizione del sé: sottolineo incompiuta poiché credo che in questo si traduca il più profondo senso del nostro esistere, nel continuo cercarsi. Dunque, nel dirsi.
Per fortuna la scuola non è fatta solo di registri, voti, esami, crediti, scrutini e consigli di classe.
Un blogger/collega/scrittore che in questa farmacia stimiamo molto, Alessandro d'Avenia, lo scrive spesso e bene, nel suo spazio virtuale. E lo sperimenta fra i banchi. La scuola è quel delicato e meraviglioso rapporto con i ragazzi. La scuola È i ragazzi. Nei quali tutte le mattine per 11 mesi all'anno ti specchi, ti ascolti, ti sorridi. Quelli a cui ti offri con tutta l'anima perché imparino a stringere i denti e a non smettere mai di cercarsi. Confesso che se ho qualche vaga e sbordata definizione di me stessa lo devo proprio a loro. Eppure conclusi gli esami a luglio ero davvero, oltre che stanca, avvilita; soprattutto, demotivata. Questo è il motivo per cui ho pensato di esporre sul bancone il libro che per me è stata una bibliopillola inghiottita con molta convinzione e che ha avuto un immediato e benefico effetto.

Recalcati - L'ora di lezione - Einaudi
 Una scrittura scorrevole ma profonda, una riflessione serena ma implacabile sull'insegnamento ormai scarnificato a mera trasmissione di competenze sempre meno tali e sempre più sterili informazioni, un inno a quello che invece è per molti il mestiere più bello del mondo, perduto all'interno di una scuola smarrita, icona di una società che ha imparato e insegna a fare a meno dei maestri. Eppure, ciò che oggi serve davvero tanto, ciò che potrebbe operare il miracolo di restituire dignità ad una generazione spersonalizzata in un mare confuso di nozioni disponibilissime ma spesso superficiali o vuote, è proprio chi con le proprie parole crea. Chi inventa mondi, vite, luoghi e storie; chi spinge a pensare, chi cancella limiti e confini, chi trasforma in oggetto erotico, in qualcosa da amare come fosse un corpo, i libri e il sapere.

"Trasformare l'allievo come oggetto sul quale si applica un sapere - testa o bocca vuota (recipiente) da riempire, vite storta da raddrizzare - in un soggetto che ricerca attivamente quello di cui manca, che si senta trasportato, attirato, catturato verso un sapere nuovo"
Le parole sono importanti. Hanno una materialità, densa e fisica, da stringere e amare.
E un'ora di lezione può cambiare la vita.


mercoledì 3 settembre 2014

Bibliopillola n. 8: Contro la dispersione

Un silenzio innaturale che profuma di autunno ha pervaso la casa, una quiete ovattata che concilia riflessioni serene ma fa anche irrimediabilmente prudere le dita. Ci sono condizioni dell'anima, talvolta, che devono necessariamente sfociare in qualcosa di scritto, per completarsi.
Ecco perché dal mio divano immerso in una penombra che sa di odore di pioggia rialzo le saracinesche della Farmacia. D'altronde, si sa, è autunno. La stagione della ripresa, dei buoni propositi, delle liste di cose da fare... il mese in cui ci illudiamo di vivere un'esistenza programmabile e prevedibile. Ma ci serve, ne abbiamo bisogno, non possiamo fare a meno di progettarci, di inserirci in una continuità temporale, di pensare a noi stessi come a identità compiute. Che ovviamente non siamo mai.
La prima chiacchiera autunnale qui, fra i nostri scaffali, mentre tolgo un po' di polvere e faccio arieggiare i locali (qualcuno il caffè lo prepara, vero?) scaturisce da una frase che la mia socia ha scritto ieri in un post.
Ogni volta che torna dalla sua Sardegna, ci lascia un pezzo di cuore; e si chiede:
"Si può vivere con i pezzi rimasti?"

Mi sono immaginata come una specie di mosaico che si va sfaldando, che perde tessere ad ogni svolta esistenziale. Ma poi ho pensato che forse è il contrario: siamo fatti di tanti tasselli diversi, mischiati, uniti, ricomposti dalla vita ogni volta che si scava l'ennesima ruga sui nostri volti. Siamo sfaccettati, un'immagine anamorfica che ha un senso solo se osservata da lontano, nella quale ci riconosciamo per un po' e nel frattempo siamo già lì a rimestare i nostri elementi.
Si può vivere di pezzi, certo. Tutti quelli che ogni volta rimangono, finché non ne troviamo altri. Talvolta anche con pochissimi. Spesso con troppi.
Piuttosto, quello che davvero ci occorre è un buon collante. Qualcosa che ci permetta di saldare la nostra se pur temporanea forma compiuta. Un sostrato adesivo che ci tenga insieme.
Insomma, la stagione la apro con una bibliopillola. Una sorta di Attack per l'anima. Perché spesso si ha paura, quando si cerca di riunirsi, di ricomporsi, di riconoscersi.  Perdite di sé cicliche che ci sbandano e ci scombussolano.
C'è stato un libro, anni fa, che mi ha insegnato a non farmi prendere dal panico quando si perde l'orientamento di se stessi; un libro in cui il protagonista, in precario equilibrio, si ritrova a dover fare  i conti con volti e luoghi sconosciuti, all'inizio confusi, turbinanti come la neve di Sapporo, ma che si svelano in realtà essere volteggianti, a costituire nuovamente qualcosa che acquista senso solo se inseguita passo dopo passo.
"- Finora tu hai perso molte cose. Molte cose preziose. Il problema non è sapere di chi è la colpa. Il problema è che tu attaccavi sempre qualcosa di te a tutte le cose che perdevi. Non avresti dovuto. Avresti dovuto tenere qualcosa da parte per te, invece di lasciarla andare via con il resto. Così ti sei consumato poco a poco. Perché? Perché l'hai fatto?

- Non lo so."
Che questa bibliopillola vi porti al vostro personale Dolphin Hotel, dove s'impara che non si finisce mai di disgregarsi e ricomporsi, purché non ci si dimentichi mai di danzare.

"Capisci quello che ti sto dicendo? Devi danzare, finché ci sarà musica. Capisci quello che ti sto dicendo? Devi danzare senza mai fermarti."
Murakami Haruki, Dance dance dance



mercoledì 28 maggio 2014

Bibliopillola n. 7 Contro la stanchezza

Ci sono giornate in cui la stanchezza ti divora. Ti consuma da dentro, ti rende passiva, riottosa, ti lega per terra con due blocchi di cemento per piedi, il cuore gonfio e la testa svuotata. Ci sono giornate che arriva la sera e ti chiedi come sia successo, che ti svegli al mattino e ti sembra di non aver dormito affatto, ore di non-riposo trascorse in un irrequieto dormiveglia in cui si confondono incubi da desta e sogni che nemmeno riesci più a fare. Una stanchezza che ti chiedi perché, conseguenza di attività che spesso e con sgomento ti ritrovi a considerare marginali, rispetto a quelle che davvero vorresti ti stancassero, se non addirittura inutili, stupide. Sprechiamo noi stessi e il nostro tempo a sbrigare incombenze, faccende e iter assolutamente monotoni, alienanti, incredibilmente lontani da quello che vorremmo realizzare di noi attraverso il lavoro. Una stanchezza avvilente e mortificante.
Ecco, questo è uno dei malanni che più mi affligge, da qualche anno a questa parte. E nonostante gli occhi alla sera brucino e le palpebre calino con pesantezza, mettermi a leggere mi dona quell'ora di quiete che è molto simile ad un appagamento, una sorta di risarcimento per un pezzettino di vita che sento con un nodo alla gola irrimediabilmente sacrificato.
Mentre mi arrabattavo dietro il bancone della farmacia ho pertanto pensato stasera ad una prescrizione complessa, una confezione multipla; perché mi è capitato di ascoltare opinioni contrastanti su quali generi, autori e testi possano risollevare dalla stanchezza.
C'è chi preferisce una leggerezza consapevole, che soffi aria fresca in una mente intasata per distrarsi: un po' come sedersi all'ombra di un bell'ulivo in un pomeriggio di canicola.
Chi invece non si rassegna a leggere qualcosa di meno impegnato e nella complessità di stili letterari forti, fra le parole di personaggi umani e anche sofferenti, trova un coinvolgimento emotivo e artistico che comunque svaga.
Chi ha assolutamente bisogno di parole che incollino alle pagine, di trama ed emozione, della scarica adrenalica dei gialli, ad esempio.
Chi infine (ma non ultimo) deve sbrigliare la fantasia verso luoghi immaginari e racconti chimerici, abitando castelli, Terre di Mezzo o foreste popolate da unicorni.
Dunque tante prescrizioni stasera, contro la stanchezza: scegliete voi la bibliopillola che più vi aggrada, che più vi è consona.
E riposate membra e pensieri facendovi trasportare in tutte quelle vite che potete fare, comunque, vostre.

Ali di Babbo, Milena Agus, Nottetempo.
Semplice, ma non banale; leggero ma non superficiale. Fresco come il vento della Sardegna, racconta l'incanto di un adolescente che forte della propria spontaneità inizia ad affrontare anche le crudeltà della vita. Fiaba contemporanea. Addolcente.







Trilogia di Fabio Montale, Jean Claude Izzo, e/o.
Un poliziotto marsigliese, un uomo che vive un rapporto passionale, nel bene e nel male, con la sua controversa città, porto dannato e maledettamente bello, metafora di un mondo che è uguale ovunque e che a prescindere dagli occhi con cui lo si guardi regala ad un certo punto della vita di chiunque una lucidità disincantata ma mai rassegnata. Noir mediterraneo. Umano.








Il collezionista di ossa, Jeffery Deaver, Sonzogno.
Lincoln Rhyme è un criminologo divenuto tetraplegico coinvolto in un'indagine su un assassino efferato.
Ritmo incalzante, tempi serrati, una lotta contro la crudeltà e le limitazioni del protagonista. Corroborante.







Il Signore degli Anelli, J.R.R. Tolkien, Rusconi.
Un mondo immaginario in un tempo immaginario, hobbit, elfi, anelli del potere, una saga che incanta da quasi un secolo, il potere salvifico della fantasia. Epico.

domenica 11 maggio 2014

Bibliopillola n.6: Per le figlie che diventano madri

Mentre riflettevo sui post precedenti ho guardato il calendario e la ricorrenza odierna ha provocato un corto circuito. Ho pensato a quanti tipi di madre esistono: biologiche, genetiche o semplicemente donne che prestano cura, crescono, insegnano, sostengono, amano. Figli, alunni, pazienti, nipoti, bambini, adolescenti.
La radice sanscrita della parola madre ha il significato primario di "misurare, preparare, formare". Da questa deriva poi il termine matr (mater in latino), "colei che ordina e prepara". 
Appunto.
Qualche mia sinapsi attivandosi ha estratto da un cassetto encefalico una delle più belle figure di madre che appartengono alla letteratura (che ho letto):
Clara Del Valle Trueba. Una donna singolare, con un curioso rapporto con le parole e un mondo incantato che frequenta insieme alla sua stessa realtà; madre di Blanca, nonna di Alba. Tre nomi di luce, un inno alla trasparenza e alla chiarezza delle vite semplici ma non per questo superficiali o leggere.
Il libro è La casa degli Spiriti di Isabel Allende: una saga familiare raccontata attraverso tre generazioni di donne sudamericane dai primi decenni del secolo scorso fino alla guerra cilena. Non è un libro facile da descrivere, fosse pure per raccontarne la trama: va letto e basta. Clara, creatura delicata e potente, concreta ed eterea, racchiude in sé per elargirle a tutti coloro che la circondano quelle che a mio parere sono le tre doti fondamentali di qualsiasi tipo di madre:
Coraggio, per far da scudo e proteggere finché si impari a sopportare e tollerare da soli;
Amore incondizionato, perché solo questo fortifica;
Magia, per non perdere mai il sorriso, la curiosità, per non adattarsi mai a nulla di normale, per osare sempre e non rassegnarsi mai, per vivere in modo speciale anche le giornate più banali (la magia in realtà insegna che non esistono giornate banali), per credere sempre in qualcosa di più, di altro, di tanto certo quanto sfuggevole. Perché ogni madre è allo stesso tempo potente, istintuale, ma anche terrorizzata da paure, insicurezze, stereotipi. Perché non c'e niente di più realisticamente sovrannaturale della vita stessa.
[Clara] non credeva che il mondo fosse una Valle di lacrime, ma al contrario una burla di Dio, sicché era stupido prenderlo sul serio, se Lui stesso non lo faceva.


martedì 6 maggio 2014

Bibliopillola n. 4 - Pillola Rossa


In seguito alla pubblicazione del post precedente, al bancone sono arrivate alcune richieste. Alcune esplicite, altre meno. Ad ogni modo, il primo preparato é disponibile.
É una bibliopillola che serve a favorire un regolare ritorno a se stessi, che é il punto di partenza di ogni cura. E ci é stata suggerita da chi ha scritto che non trova spesso un libro adatto a sé. E nemmeno glielo regalano.
Abbiamo pensato che forse bisognerebbe cercare meglio: il che presuppone di sapere che cosa si sta cercando.
Abbiamo anche pensato che potrebbe essere necessario mostrare qualcosa di più di sé, agli altri, per diventare oggetto di cura.
Paradossalmente, mentre rimestavamo i nostri galenici, mi é venuto in mente, prima di un libro, un film.
"Immagino che in questo momento ti sentirai un po' come Alice, che ruzzola nella tana del bianconiglio [...] Hai lo sguardo di un uomo che accetta quello che vede, solo perché aspetta di risvegliarsi! E curiosamente non sei lontano dalla verità [...] Dovrai scoprire con i tuoi occhi qual é. È la tua ultima occasione, se rinunci non ne avrai altre. Pillola azzurra, fine della storia. Domani ti sveglierai in camera tua e crederai a quello che vorrai. Pillola rossa, resta nel paese delle meraviglie e vedrai quant'é profonda la tana del bianconiglio!" 
Morpheus (Lawrence Fishburne), The Matrix, Andy e Larry Wachoski, USA, 1999
La citazione é Alice nel Paese delle Meraviglie, fiaba più che nota: ma la bibliopillola segue Lewis Carroll oltre, Attraverso lo specchio.

Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò è un romanzo fantastico del 1871 scritto dal matematico e scrittore inglese Charles Lutwidge Dodgson con lo pseudonimo di Lewis Carroll, come seguito de Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie. Meno noto di quest'ultimo,  é un racconto complesso, zeppo di allusioni, citazioni, giochi di parole, riferimenti a proverbi, nonsense.
É la metafora fantastica di un viaggio alla ricerca di se stessi che si può compiere solo riflettendosi in qualcos'altro .... O qualcun altro.
Al di là dello specchio Alice trova tutti i personaggi delle sue filastrocche preferite, che riescono a prendere vita solo specularmente, al contrario, come tutto ciò che é riflesso. É una lettura surreale, a tratti assurda, ma insegna che bisogna essere disposti a rovesciarsi per comprendersi. Ad attraversare la superficie liscia che contorna la nostra realtà. Quando si torna indietro, ci si conosce un po' di più e questo sicuramente può servire a guardare (e guardarsi) diversamente (ne)gli occhi degli altri.

domenica 4 maggio 2014

La Cura

Riflettevo sulla Cura.
Interessamento solerte e premuroso che impegna sia il nostro animo sia la nostra attività. Così chiosa il vocabolario Treccani. 
Provvedere alle necessità e alla conservazione di qualcuno. 
Prestare riguardo e attenzione, impegno, zelo e diligenza
Quante parole belle: suoni che evocano, se li ripeti scandendoli sillaba per sillaba visualizzi una casa, un fuoco acceso e una coperta rimboccata, un sorriso, un abbraccio, un regalo, una stretta forte, un riparo. Ma constato con riluttante amarezza che abbiamo imparato ad accontentarci della loro eco. Abbiamo dismesso i panni di chi si adopera, si fa carico, si occupa dei propri cari: é qualcosa che richiede fatica, vera, fisica, ma anche applicazione, concentrazione, meticolositá. Non sappiamo più stare attenti alle persone che ci circondano e alle quali teniamo: diamo tragicamente per scontata la loro benevolenza, oltre che la loro presenza.  Riteniamo che una volta allacciati, i legami si tengano annodati da sé per sempre. Smettiamo di sforzarci, dimenticando che tenere a qualcuno é un impegno costante. Dovremmo anzitutto tornare ad osservare: non ci accorgiamo più di come vediamo le persone intorno a noi, dei loro gesti, delle espressioni, dei cenni. Non le ascoltiamo perché non parliamo, ci limitiamo a scambiare informazioni. Finiamo a poco a poco con il frequentarle a margine, con il vivere alle loro periferie. 
La Cura é uno dei motivi per cui mi ritrovo dietro questo bancone. Scegliere un libro per qualcuno é un atto forte di premura, un onere che richiede impegno e attenzione, significa dedicargli del tempo perché stia meglio grazie a noi. É un atto d'affetto. Una 'terapia' così come la intendeva Ippocrate: il padre della medicina sosteneva che questa consistesse tanto nel tocco, quanto nel rimedio e infine nella stessa parola: una pacca sulla spalla, un tazza di cioccolata calda e un discorso serio fra amici. Anche da leggere. 

E.

mercoledì 16 aprile 2014

Bibliopillola n. 2 - Contro l'Etá della Ragione


Questa prescrizione riguarda un terribile equivoco nel quale molto facilmente si inciampa.
Le pagine dei libri possono rappresentare una sorta di filo di Arianna per trovare l'uscita da labirinti esistenziali.
È vero, abbiamo inaugurato questa farmacia anche perché lo pensiamo.
Ma ci si deve intendere bene: se srotolando il suddetto filo cominciamo ad orientarci e ad acquisire familiarità con quel tracciato apparentemente inestricabile di strade, allora ha giá funzionato. Non é detto che si trovi l'uscita; nei labirinti medievali spesso questa coincideva con il punto di partenza. Probabilmente dobbiamo continuare a camminare per irrobustirci: per comprendere che ció che sembra contorto é semplicemente ciò che siamo, ma non siamo ancora pronti (o piú pronti) ad accettare. Ci rimproveriamo di non esser sufficientemente bravi a trovare l'uscita; o di non averne piú la forza o peggio ancora la volontà. Ci rimproveriamo, o ci rimproverano, di essere coscienze smarrite.
Ma forse occorre proprio fare i conti con questo eterno errare dentro e fuori noi stessi.
"Ma vecchio mio, guardati un poco: hai trentaquattro anni, i capelli ti si stanno diradando, non hai più niente di un giovanottello, e la vita di bohéme non è più per te. E poi, si può sapere cos'è, la bohème? Era molto carina cento anni fa, ma adesso è un pugno di spostati che non rappresentano un pericolo per nessuno e che hanno perso il treno.
Tu hai l'età della ragione, Matteo, l'età della ragione, o almeno dovresti averla"
"Bah!" disse Matteo "quella che tu chiami l'età della ragione non è altro che l'età della rassegnazione, e io non ci tengo affatto".
Questa bibliopillola è per Titti che ha commentato quanto male possa fare la consapevolezza: perché non è detto che essa debba necessariamente coincidere o con la ragione o con la rassegnazione.

Jean Paul Sartre, L'etá della ragione, Bompiani, 2009




giovedì 10 aprile 2014

Bibliopillola 1 - Per le nottate interrotte

"Alle 2.00 circa, però, due o tre file non correttamente chiusi nel cervello, la prima zanzara della stagione e la gatta piagnona dietro la porta della mia camera mi hanno ributtata al mondo. Dopo aver navigato in lungo e in largo nei documenti spalancati nella testa senza trovare soluzione degna di questo nome, neppure la consolante frase "domani è un altro giorno" avrebbe avuto il potere di riportarmi nelle braccia di Morfeo". (Mariarosa)
Mi è quasi caduto addosso, nel senso che ho avuto la sensazione che sia stato lui a trovare me. Intendo, il primo libro da farmacista letteraria, la prima pillola letteraria di ApoTeche. Nonostante non ci sia stata una vera e propria richiesta di aiuto, il commento di Mariarosa al post di qualche giorno fa Consapevolmente ha fatto scattare la molla che ha messo in moto il meccanismo per cui la Farmacia Letteraria è nata.

O forse, semplicemente, è cascato un libro dallo scaffale. E mi sembra proprio una bella terapia d'urto, perché racconta i mille modi in cui si cerca se stessi. Racconta di come solo gli altri, a volte, possano dirci qualcosa di noi, anche a distanza di anni, anche da luoghi diversi. E di come, inesorabilmente, anche laddove si tenti di evitarlo, solo le parole salvano: ma bisogna essere capaci di farlo. Al limite, impararlo.
"Vede Rebecca, una cosa mi sembra di averla capita. Pensavo che parlare non fosse assolutamente necessario, io ho terrore delle chiacchiere, non potevo certo pensare di chiacchierare con lei. E poi temevo che si finisse con una cosa tipo psicanalisi o confessione. Una prospettiva agghiacciante, non trova? [...] però, vede, mi sbagliavo. La verità è che devo accettare di parlare, anche una sola volta, due al massimo al momento giusto, ma devo essere capace di farlo".

Pensa un po', Mariarosa: il protagonista che sta parlando è uno scrittore che ha deciso di smettere, perché "un giorno mi sono accorto che non mi importava più di nulla e che tutto mi feriva a morte".
Ma non ci si può allontanare mai del tutto da quello che si è. Nonostante la consapevolezza sia dolorosa.
"Mentre spegneva le luci e trovava ancora qualcosa da rimettere a posto, ebbe la sensazione strana di non essere lì, e di rifinire i dettagli della vita di un'altra. Con una punta di sconcerto capì che, in un solo giorno, una certa distanza a cui aveva lavorato per anni, si era scostata con eleganza - una tenda in un colpo di vento.
E da lontano la raggiunse una nostalgia che credeva di aver sconfitto".
Et voilà, la bibliopillola1: una cura per le nottate, e le vite, interrotte.


martedì 8 aprile 2014

Libri che vanno, libri che vengono. Terapia del donare e del ricevere.

 Ricordo, anni fa, l'apertura di un nuovo mega punto vendita di un noto marchio dell'Editoria sapientemente organizzato intorno ai primi di dicembre. Ricordo le file di clienti alla cassa quell'anno, e ricordo come si disse che mai come per quel Natale in città furono regalati libri e prodotti editoriali.
Mi sono spesso chiesta quanti di quei libri fossero stati scelti e regalati col cuore, quanti di quei libri siano stati poi effettivamente letti e quanti invece abbiano solo occupato qualche centimetro di spazio in una libreria. E mi sono spesso chiesta come ho scelto gli innumerevoli libri che ho regalato e come sono stati scelti gli altrettanto innumerevoli che ho ricevuto in dono.
Perché, è innegabile, se è vero che ricevere un dono è piacevole e talvolta lenitivo, è anche vero che donare è spesso altrettanto terapeutico e che, al contrario ricevere è talvolta poco meno che un fastidio se ci lascia la sensazione di sentirci in debito o che il dono non sia realmente sentito.
E al di là delle diverse teorie sul donare e sul ricevere, sarà che son di parte, ma non riesco a non pensare che regalare e ricevere libri sia un'esperienza che dona un sapore diverso alla vita.

Va bene, sono di parte. 
Sono sicura che in tanti avranno ricevuto un libro in regalo e un attimo dopo averlo scartato gli avranno trovato un posto da qualche parte (gamba del tavolo troppo corta, rialzo per il tablet, libreria... magari...), ma parliamo di quelli per cui le parole hanno un senso, per cui anche solo il tenere un libro tra le mani riempie la giornata.
Va bene, parliamo di me.

Ho ricevuto e scelto tanti libri nella vita e, ad essere sincera non saprei nemmeno dire se preferisco riceverli o regalarli, anche se sospetto una leggera propensione per la seconda.
Ho ricevuto libri che ho amato e che ho odiato, libri che ho trovato in sorprendente sintonia con me stessa e libri che non sono riuscita nemmeno a finire per quanto erano distanti da me, tutti indistintamente, però, mi hanno sempre detto qualcosa della persona che me li stava regalando e, soprattutto, di me.
Ho ricevuto libri che mi hanno permesso di sentirmi amata, vista, conosciuta. Ho ricevuto libri che mi hanno permesso di sguazzare in dolori momentanei e di uscirne con la consapevolezza di essere sopravvissuta (come scordare la sorprendente lucidità e tempestività del gruppo di colleghi che mi regalò Follia di Mc Grath appena pubblicato!?)
Ho ricevuto libri che ho accolto con la curiosità di trovare all'interno una parte importante di chi me li stava donando (l'intera saga Malaussene, Le parole di Sartre, Mr Gwyn di Baricco) e che mi hanno dato la sensazione di ricevere in dono un pezzetto di anima.

E quando ho regalato? Come ho scelto? Pensando a me o alla persona a cui dovevo fare il regalo? 
Mi sono chiesta spesso se, nello scegliere un libro sia più giusto scegliere secondo i propri gusti o secondo i gusti di chi riceve e la risposta che mi sono data è che, come in tante situazioni, dipende dal tipo di relazione, da ciò che si desidera veramente donare all'altro, da quanto si è pronti a mettersi in discussione. E allora ho più regalato secondo i miei gusti, dando, di volta in volta, un pezzetto diverso della mia anima: La città di K della Kristoff e Jules e Jim di Roche sono esempi di libri che ho regalato più di una volta, ma altri ce ne sono sicuramente che per qualche motivo ho già scordato.

Concludo con due tipi di regali che negli ultimi anni mi hanno scaldato il cuore, sia nel momento della scelta che al momento dell'apertura del pacchetto: i libri scelti dalla mia libreria, o ricevuti in dono da qualcuno che a sua volta se ne è privato, per me!, e i libri scelti per i bambini.

Da ex maniaca ossessiva compulsiva dell'accumulo e del possesso dei libri, scoprire di poter donare un pezzo veramente mio è stato uno dei più grandi regali che ho fatto al mio benessere e al mio disturbo compulsivo e ricevere un libro che ha respirato tra le mani di qualcuno che stimo è un onore oltre che una piccola perla di affetto.

E regalare libri ai bimbi... che dire? Meglio niente forse... non ci sono parole per descriverlo.

Ci siamo chieste ieri, dietro i banconi della Farmacia se questi primi post non fossero troppo autoreferenziali e la risposta è stata forse si, ma è un po' così che vorremmo fosse la nostra farmacia: con la possibilità per chiunque passi di qua di lasciare un po' di sé, autoreferenzialmente. È per questo che in coda a questo post ve la butto un po' lì': regalateci le vostre esperienze di regali. Cosa avete regalato, cosa vi hanno regalato? Ma soprattutto: che effetto vi ha fatto? Quando vi ha curato o quando vi ha fatto male?

Entrate pure, prendete il libro che volete e lasciate un pezzetto di voi e se non siete sicuri di cosa scegliere... provate a chiedere... magari insieme troviamo un libro diverso.

Valeria


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