lunedì 26 ottobre 2015

Bibliopillole emozionali

C’è poco da dire: l’uscita nelle sale del film Disney Pixar Inside Out ha avuto l’effetto di un ciclone per il tema delle emozioni che, come non capitava da tempo, è diventato uno degli argomenti più citati sul web da specialisti, genitori, figli, giornalisti e chiunque abbia visto il film o semplicemente abbia una certa familiarità con le emozioni (quindi tanti, direi!). A chi, come me, con le emozioni ci lavora da tanti anni (oltre a conviverci praticamente dalla nascita), non può che fare piacere e veramente mi ha incuriosito tanto leggere critiche a favore o a sfavore del film, approfondimenti sulle varie emozioni, domande, dubbi, risposte.
Tra le tante mi ha colpito, recentemente, la recensione di Goffredo Fofi su Internazionale che ho trovato apocalittica e veramente molto poco centrata sia rispetto al tema delle emozioni che rispetto a quello della metafora (che bisognerebbe avere sempre abbastanza presente quando si va a guardare un cartone animato). È vero, Fofi ammette fin da subito il suo pregiudizio per “pupazzetti dagli occhi di manga e per i peluche giganti” ma trovo comunque esagerato che la sua conclusione sia che nel mondo descritto da Inside Out
Svanisce il libero arbitrio e resta l’idea di una “macchinosa” manipolazione delle nostre azioni.
È insomma – forse esagero, ma forse no – come se, partendo non a caso dai bambini, un potere nuovo voglia abituarci all’idea di una nostra dipendenza da entità astratte ma ben presenti nella realtà, e voglia abituarci ad agire di conseguenza, assistiti e guidati da chi pensa per noi e ci spinge dove vuole lui. [Goffredo Fofi, qui]
Insomma, quel che è arrivato a Fofi è che il nostro comportamento è totalmente guidato dalle emozioni che funzionano come entità astratte che qualcuno ha infilato nel nostro corpo al solo scopo di guidare il nostro comportamento. Fofi non ha capito due cose: la prima che il meccanismo dei pupazzetti-emozione vuole solo rappresentare qualcosa di molto più complesso (vedi la metafora di cui sopra), la seconda che le emozioni non sono estranee al nostro funzionamento, ma ne fanno parte, e rappresentano solo un tassello del processo che porta a mettere in atto una serie di comportamenti la cui definizione non è decisa a prescindere ma è il risultato di componenti sociali, personali, culturali e molto altro ancora.
Semplificando, le emozioni, di fatto, nel complesso processo di relazione tra l'individuo ed il mondo, si posizionano a metà strada tra il mondo e ciò che noi facciamo nel mondo, dato che possiamo definirle come reazioni fisiologiche, psicologiche, cognitive e comportamentali a ciò che avviene intorno a noi. Risposte che nascono in automatico nel nostro organismo e che hanno lo scopo di salvaguardare gli istinti innati di sopravvivenza, difesa, riproduzione ecc., ma che si trasformano in comportamento in maniera allo stesso tempo universale ma diversa da soggetto a soggetto. La paura ad esempio è l’emozione tradizionalmente deputata al mantenimento delle sicurezza, legata alla percezione di un pericolo ed alla potenziale minaccia; il comportamento di elezione in questo caso è la fuga, ma sappiamo bene che tale fuga può essere messa in atto in decine di modalità diverse dal fingersi morti, allo scappare vero e proprio, fino all'attacco, comportamento controfobico che spesso mettiamo in atto di fronte a pericoli che riteniamo di poter fronteggiare o che non riconosciamo come tali.
Su quali e quante siano le emozioni gli studiosi si interrogano da anni e, pur oscillando tra approcci categoriali e dimensionali, è in gran parte accettata la distinzione tra emozioni primarie ed emozioni secondarie, dove le primarie
possono essere generalmente definite come emozioni non consapevoli (dettate dall’istinto e non dalla ragione), innate (possedute almeno in potenza fin dalla nascita) e universali (comuni a tutti gli esseri umani al di là della loro origine geografica e culturale). Le emozioni primarie sono biologicamente primitive, di breve durata e hanno un forte valore adattivo essendo capaci di assicurare la sopravvivenza individuale e della specie attraverso la preparazione all’azione... (Secchiano, 2014)
Tra i vari modelli uno di quelli che riscuote maggiori consensi è il modello categoriale di Ekman che distingue sei emozioni primarie: Paura, Tristezza, Rabbia, Gioia, Sorpresa e Disgusto/Disprezzo. Plutchik elabora, invece, un modello ad 8 emozioni (aggiungendo Accettazione e Attesa) e ben delinea il processo attraverso cui si passa dallo stimolo, alla percezione, alla risposta emozionale, al comportamento.

(Secchiano, 2014)

Trova le differenze

Le emozioni nel modello di Ekman
(Secchiano, 2014)

Le emozioni in Inside Out



Trovate le differenze? Non è una sorpresa; nel modello scelto dagli autori di Inside Out manca l’emozione Sorpresa, omessa per non meglio identificati motivi di scenografia, e riammessa in una infografica, diffusa dalla produzione, come prodotto dell’incrocio tra Paura e Gioia.



Ma che c’entra tutto questo con i libri, direte voi? C’entra, c’entra! Leggere un libro e guardare un film hanno molte cose in comune, non a caso spesso i film non sono altro che trasposizioni di libri (e, talvolta, viceversa). La lettura è fortemente legata alle emozioni, perché leggiamo di emozioni e sperimentiamo emozioni nel leggere. Ci emozioniamo nel momento della scelta, mentre leggiamo, quando chiudiamo il libro per l’ultima volta arrabbiati, disgustati o tristi e di questo vorremmo parlare con voi.
Partiremo a breve con un ciclo di post-incontri su libri ed emozioni. Proporremo alcune bibliopillole, ma soprattutto vorremmo raccogliere le vostre bibliopillole emozionali. Quali libri vi hanno dato quali emozioni, quali consigliereste per sperimentare o esorcizzare.
Teniamo molto a questa iniziativa.
Sarà emozionante!
Non pensate?

Per approfondire
Ekman P. (2008) Te lo leggo in faccia. Riconoscere le emozioni anche quando sono nascoste, Amrita.
Plutchik R. (1995) Psicologia e biologia delle emozioni, Bollati Boringhier.
Secchiano L. (2014) EMOZIONI - storia, biologia, psicologia e loro influenza sul processo decisionale, Narcissus.me.

sabato 24 ottobre 2015

Della Paura (per ricominciare a parlare di libri ed emozioni)



Una camminata in paese mi ha ricordato che siamo vicini ad Halloween, festa amatissima dai bambini e ripudiata da molti adulti. Samhein era una festa celtica che le comunità contadine pagane celebravano in pieno autunno e coincideva con la fine dell'anno: il sole che tramontava sempre prima simboleggiava la morte definitiva dell'estate, aprendo le porte all'inverno con i suoi fantasmi e i suoi spiriti. ll papa Gregorio IV istituì ufficialmente (il giorno dopo) la festa cristiana di Ognissanti, il 1º novembre 840. L'importanza della continuità con il passato era evidente anche a quel lontano pontefice: la festa della rinascita dopo la morte, radici cristiane innestate su tradizioni pagane. Anche per questo ritengo che scherzare con mostri e diavoli non sia dannoso per nessuno, tanto meno per i bambini. Le paure in qualche modo vanno esorcizzate e uno di questi modi è imparare a conviverci.
Come possiamo esimerci dunque da un confronto con la letteratura horror? Genere spesso bistrattato, ritenuto minore, adolescenziale, di intrattenimento.
Beh, no. I libri horror raccontano le incursioni dell'irrazionale nella realtà, cancellano i confini, annullano le distanze fra il soprannaturale e il quotidiano. La repulsione e lo spavento derivano dalla drammaticità della destabilizzazione: le sicurezze acquisite vacillano quando riemergono paure ancestrali. 
Poiché finalmente stiamo per riaprire il blog con il tanto atteso ciclo sulle emozioni, che tratteremo percorrendo i binari paralleli della psicologia e della letteratura, mi sembrava il caso di risollevare questo genere che inaspettatamente può persino proporsi sotto forma di bibliopillole. Del resto l'horror attrae proprio perché catartico: quando si sperimenta la paura, che derivi da ossessioni e fobie comuni o dal sovvertimento della routine o dalla natura ambigua degli stessi rapporti umani, tornare alle proprie esistenze non può che offrire consolazione. 
Abbiamo scelto alcuni classici che andrebbero comunque letti, a prescindere dal fatto che piaccia o no il genere.

Amleto, William Shakespeare. La trama la conosciamo tutti; il mio vecchio professore universitario la definiva "la tragedia della volontà umana", annichilita dal fantasma della propria codardia più che da quello del genitore morto. L'incapacità di vendicarsi assumendosi le proprie responsabilità. In fin dei conti è ciò che rappresenta un qualsiasi fantasma: l'irrompere e il manifestarsi dell'incognito, e non c'è nulla che ci spaventi di più, poichè costringe  a prendere provvedimenti, ad agire, e non sempre siamo pronti. Esiste una paura più ancestrale? L'incanto dei versi del Grande Bardo ci mette di fronte a noi stessi, padri e figli perennemente in cerca di risposte. O forse no.








Dracula, Bram Stoker. Il padre di tutti i vampiri della letteratura (ahinoi, anche di quelli meno leggibili degli ultimi tempi), un archetipo potente che risale addirittura all'epoca mesopotamica e nel folklore europeo, dal Medioevo in poi, non si contano le testimonianze, le opere, i documenti che citano vampiri e vampirismi. In questa figura si sommano il terrore più venale della morte (il non riconoscere una persona amata poichè tramutata in una entità sconosciuta) e l'equazione ignoto=pericoloso che è la radice di qualsiasi paura. Scritto sotto forma di diario, il romanzo di Stoker è ispirato a Vlad III principe di Valacchia ed è una delle prove più belle della letteratura ottocentesca inglese: storia, mitologia e profonda conoscenza dell'animo umano in un'atmosfera cupa egregiamente tratteggiata.








Frankenstein, Mary Shelley. Il più potente esorcismo contro la morte è dare la vita. Creare, fingersi dei, forgiare esseri viventi. La tecnica al servizio di una scienza che sfida i nostri condizionamenti (il sottotitolo originale dell'opera è Il Prometeo moderno), ma la tracotanza finisce con l'essere punita. Creatore e creatura si scambiano spesso i ruoli, all'interno del romanzo, mischiando umanità e brutalità, desiderio di perfezione e deformità. Anche qui ci ritroviamo faccia a faccia con una delle più profonde paure umane: a cosa può portare sfidare i propri limiti?











Racconti del mistero, dell'incubo e del terrore, Edgar Allan Poe. Raccolta di storie fantastiche, misteriose, uno tra i primi gialli psicologici e l'antesignano dei romanzi polizieschi (anche Conan Doyle si ispirò a Poe per Sherlock Holmes). Solo per citare: La mascherata della Morte Rossa, I delitti della rue Morgue. Piccoli capolavori in cui il brivido è davvero avvertito fisicamente: del resto la paura è particolarmente legata alle percezioni sensoriali e la particolarità di quest'autore sta nella incredibile capacità di far letteralmente provare, addosso, le sensazioni dei personaggi. 
Il pozzo e il pendolo docet. 








Buona paura a tutti. Anch'essa serve. Come vedremo tra poco.

lunedì 4 maggio 2015

Bibliopillola n. 16 - Integratore contro le convenzioni

Ho sempre osservato con estrema meraviglia il fenomeno per cui i libri che leggo sembrano sempre essere collegati l’uno all’altro da un sottile filo conduttore. A volte è una parola, a volte una città, a volte un tema più ampio, ma mi sono sempre chiesta se, ed in che modo, sono i libri a mettersi in fila per voler loro o se sono, invece, i tortuosi percorsi dei miei pensieri a creare questi fili e questa volontà libresca. Non credo, in realtà, di voler risolvere il mistero, comprendere o crearmi una spiegazione plausibile. La verità è che mi diverto molto di più semplicemente ad osservare l’ondeggiare di questi fili provando ad immaginare dove mi porteranno.
Ultimamente si sono infilati tra i miei pensieri, come tre piccole perle, Il miniaturista, di Jessie Burton, Come in una ballata di Tom Petty, dell’amico di letture Marco Patrone Recensireilmondo e Le ore di Michael Cunningham (Premio Pulitzer nel 1999).
Tre romanzi molto diversi per ambientazione, fama e argomenti, eppure in ognuno di loro ho trovato il filo, il riferimento che ha acceso la lampadina che mi ha fatto pensare per giorni e provare emozioni discordanti e, spesso, dolorose, che ancora faticano a lasciarmi.
È iniziato tutto con Il miniaturista, dove il confronto tra due donne che si pongono, nel XVII secolo, in maniera molto diversa di fronte all’istituzione Matrimonio, ha acceso la scintilla. Le due faranno scelte opposte e per motivi simili, ed il tema delle regole e delle convenzioni è molto forte.

“Sembra che Marin consideri il matrimonio una rinuncia a qualcosa, quando moltissime donne – compresa mia madre, pensa Nella – lo vedono come l’unica possibilità di esercitare una certa influenza. Il matrimonio dovrebbe imbrigliare l’amore, aumentare il potere della donna. Ma è veramente così? Marin ha ritenuto di avere più potere senza. L’amore non è stato imbrigliato, e sono successe cose incredibili”.
(Il Miniaturista - Jessie Burton)

Credevo di partire per un viaggio verso altri tempi ed altri temi quando, pochi giorni dopo, convenzioni ed aspettative mi hanno nuovamente toccato ascoltando le parole, questa volta, di un uomo:

“Avevo letto di un importante manager di una multinazionale che si era suicidato, apparentemente sopraffatto dalla competitività. Pensai che avrei potuto scriverlo io, quell’articolo: la difficoltà di frenare e trovare spazio per sé, e l’uomo che rispetto al proprio corrispettivo femminile sente come obbligatorio non mostrare debolezza e tenersi tutto dentro e ancora dover comandare senza mostrare esitazione alcuna..”
(Come in una ballata di Tom Petty – Marco Patrone).

A quel punto pensieri ed emozioni già vorticavano intorno a qualcosa che non riuscivo a definire, ma era lì, e confrontandomi con l’Autore ricordo che parlammo di come l’adeguarsi alle convenzioni ed alle aspettative non sia solo degli uomini, ma fortissimamente anche delle donne, così come la difficoltà a stare dentro le scelte fatte ed il desiderio, quasi costante, di fuga.

E, infine, sono arrivata a leggere Le ore, di Michael Cunningham e non posso non pensare che questo libro DOVEVA arrivare tra le mie mani per chiudere il cerchio che mi ha portato in viaggio attraverso le pagine di questi tre romanzi e che si è manifestato chiaramente fin dalle prime pagine.

“Sembra improvvisamente semplice preparare una torta, allevare un bambino. Ama suo figlio così semplicemente, come fanno le madri – non ce l’ha con lui, non vuole andar via. Ama suo marito, ed è contenta di essere sposata. È possibile (non è impossibile) che abbia varcato una linea invisibile: la linea che l’ha sempre separata da quello che avrebbe preferito sentire, da chi avrebbe preferito essere. Non è impossibile che sia stata soggetta a una sottile ma profonda trasformazione, qui, in cucina, in questo momento così ordinario. Ha catturato se stessa. Ha lavorato molto a lungo, molto duramente, con grande fiducia, e adesso ha afferrato il trucco per vivere felice, per vivere come un bambino impara in un determinato momento a procedere in equilibrio su una bicicletta a due ruote. Sembra che starà bene. Non si scoraggerà. Non rimpiangerà le possibilità che ha perduto, i suoi talenti inesplorati (e se non ne avesse nessuno, dopo tutto?). Rimarrà fedele a suo figlio, a suo marito, alla sua casa e ai suoi doveri, a tutte le sue cose. Vorrà avere questo secondo bambino.” ù(Le ore – Michael Cunningham)
 
Le regole, le convenzioni, le scelte, la fatica di vivere, il malessere psicologico hanno iniziato girare vorticosamente tra i miei pensieri, portandosi dietro pezzi di storia, pezzi di vita: il lavoro, il dolore, l’essere madre, la vita.
Ho faticato parecchio a scrivere di questo libro, sembravano troppi i rimandi alla mia vita ed alla Vita in generale, quella con la V maiuscola. Ho dovuto lasciar passare qualche giorno e questo è quel che rimane...

Il primo giorno ho dovuto smettere di piangere, ritrovare il respiro, il mio qui e ora. Il secondo giorno ho avuto bisogno di lasciar sedimentare pensieri ed emozioni. Il terzo giorno ho iniziato ad aver paura di perdere qualcosa di tutti quei pensieri ed emozioni. Il quarto giorno ho capito che i personaggi di questo libro, Virginia, Laura, Clarissa, Richard, saranno sempre con me e, in qualche modo, lo sono sempre stati.
In conclusione due sensazioni resteranno con me: la prima riguarda il disagio delle piccole cose. Sento continuamente, anche tra le quattro mura del mio studio, raccontare di persone che si permettono di giudicare il disagio psichico con frasi tipo “con tutto quello che ha, non ha proprio niente di cui lamentarsi, non gli manca nulla” e cose simili. In tutti i personaggi del libro ho sentito dolorosissimamente come, in certi momenti, possano essere faticose e fonte di malessere le più piccole cose. Fare una torta, scegliere rose o parole, alzarsi dal letto, mettere i piedi uno avanti all'altro e "semplicemente camminare". Il mal di vivere non è di grandi o piccoli, di ricchi o poveri, di uomini o donne. Il male di vivere può essere di ognuno di noi, in qualsiasi momento e il più delle volte riguarda norme, convenzioni e aspettative e la responsabilità di farle nostre o rifiutarle (e il lavoro con la depressione post partum è solo uno dei tanti rimandi).
La seconda cosa riguarda l'identificazione con l'una o l'altra delle tre voci (quattro in realtà) e quel che è rimasto dopo che il pulviscolo si è posato è che in me c'è un po' di ognuno dei quattro. Sarò forse un po' schizofrenica ma io sono o sono stata, o sarò prima o poi, Virginia, Laura, Clarissa o Richard. O tutti loro insieme.
Essere quel che si è, vivendo giorno dopo giorno, è in fin dei conti la fatica di vivere.

lunedì 6 aprile 2015

Bibliopillola n. 15 - Contro i luoghi comuni

Qualcuno ha scritto un libro con un titolo davvero accattivante. Credo si tratti di un fumettista.
I luoghi comuni sono sempre molto affollati
Questo post è una bibliopillola contro i luoghi comuni; idee e opinioni, valori, giudizi condivisi da una larga parte di individui, gruppi sociali, comunità o addirittura interi popoli (possono comprendere anche credenze e folclore) anche se non sempre in modo consapevole. Non sempre, no. Le idee tendono a consolidarsi con una facilità impressionante, eppure dovrebbero essere quanto di più mobile, variegato, instabile esista. Non foss'altro che per evitare sostrati ideologici tendenzialmente pericolosi. Vero è, però, che i luoghi comuni, o gli stereotipi, rappresentano anche la possibilità di una discussione feconda e argomentata in una comunità di un tessuto di credenze.

Fatta questa premessa, voglio parlare di un libro che sta spopolando. In testa alle classifiche di vendita, recensito in ogni dove: Jessie Burton, Il Miniaturista. 

L'ho ricevuto un po' perplessa, l'ho aperto un po' scettica. Diffido delle classifiche. Non per una sorta di snobbismo da intellettuale, ma perché tendo a osservare, sperimentare, verificare su me stessa prima di condividere alcun che, fosse pure un'opinione.

Non voglio scrivere molto della trama, né dei personaggi. Dirò che mi ha emozionato e che (stupidina, io) ho pianto per tutte le ultime 10 pagine. Sarò ancora una lettrice ingenua o semplicemente sto invecchiando? Non so, quello che di certo riconosco è che anche per narrativa e letteratura contano i gusti personali, le corde che ognuno di noi consente a certe pagine di far vibrare, i vissuti individuali e le preferenze stilistiche. Sarà che racconta una città che ho molto amato, che ho vissuto e, nonostante si tratti di una rivisitazione seicentesca (merita anche l'accuratezza storica della descrizione, a mio modesto parere) l'ho ritrovata e riconosciuta; sarà che dipinge il mondo nuovo, variopinto e in sé trasgressivo, sinonimo di libertà e scoperte nuove, delle compagnie di navigazione; sarà che ogni personaggio, la giovane sposa, il tenebroso commerciante, la cognata misteriosa, servitori e serve, governanti e preti è tratteggiato con abilità, calcandone le caratteristiche, talvolta caricaturandole, ma forse proprio per farne risaltare l'aspra umanità; sarà che la trama non l'ho trovata affatto scontata, che mi ha tenuta sospesa fino all'ultima pagina, che ha riservato sorprendenti colpi di scena; sarà che anche in un intreccio anche un po' fantasmagorico (e comunque non ridicolo) ciò che spicca sempre è la profonda umanità di ognuno dei protagonisti, sia quella buona sia quella cattiva.
Per essere un best seller, un buon libro. Un bel libro.


Ps: oggi ricorre il primo compleanno di questo blog. Io e la mia socia Valeria abbiamo costruito questa Farmacia con le nostre emozioni, le aspettative, i progetti, l'entusiasmo che ci appartengono: nonostante si gestiscano vite complesse, come tutti, del resto, proviamo a non tenere chiusi cassetti di sogni, a soffiare sulle nostre curiosità e a tenere viva la voglia di continuare a sapere, provare, scoprire. 
Nessuna delle due ama i bilanci, e non ne vogliamo fare. 
Sappiamo che l'entusiasmo sopravvive agli impegni, ai tiri mancini del tempo, a tutto ciò che ci scorre intorno e che, anche se non gestiamo direttamente, fa comunque, delle nostre vite, le nostre. 
Continueremo a tenere aperta la nostra Farmacia, ad arieggiare i locali e a invitare gente. 
Date, scadenze e tempi prefissati spesso rappresentano un problema, ma va bene così: sappiamo che non riuscire a fare ciò che si vuole nelle precise modalità che si sognano fa parte del nostro essere umane. 
E a quello continuiamo a tenerci, sempre.


Grazie a tutti per questo anno insieme. Grazie per quelli che verranno.

martedì 17 febbraio 2015

Elogio della Leggerezza

Solo chi è sceso in profondità può apprezzare davvero la superficie.

Non sempre la leggerezza è mancanza di serietà, frivola noncuranza o scarsa consapevolezza. Richiede un apprendistato, un esercizio costante, una determinazione che solo chi ha dedicato e speso energie per affrontare e sopportare oneri gravosi sa cosa vogliono dire. Imparare a far fronte alle mille difficoltà della vita può anche significare trovare porti sicuri nei quali rifugiarsi, protetti da moli che fermano i marosi e placano le acque. Luoghi dove ci si leccano le ferite e si rasserena l'animo, sedati da una quotidianità tranquilla, bonaria e semplice. Abitati da personaggi schietti e spassosi, che portano con sé i mille difetti ma anche le grandi virtù della gente di provincia, che se anche gioca malignamente con i pettegolezzi,  con la stessa convinzione non si tira mai indietro se c'è da offrire una spalla. O aiutare concretamente. Borghi dove, lontani dal trambusto della metropoli che soffoca e stritola, si può addirittura provare a realizzare i propri sogni, aprire botteghe, locande, biblioteche alternative, organizzare festival letterari come se fosse un evento di importanza internazionale, farsi coinvolgere, insomma, da una progettualità esistenziale che mette in pace con se stessi e con i mille lati oscuri della vita. Di ogni vita. Perché ognuno ne ha, e se li porta dentro. 
Ho prima frequentato Borgo Propizio, una amena località con tanto di castello e fantasmi, rigenerante e vivace: un paesotto popolato da persone normalissime, che rappresentano la condizione umana di chiunque, da chi cerca l'amore eterno, a chi realizza i propri sogni aprendo una latteria un po' speciale, a chi deve mettere fine a matrimoni sbagliati. E sembra che il luogo che le accomuna funga da catalizzatore di positività per ognuno di loro.  






E le stelle non stanno a guardare continua ad avere il Borgo come protagonista principale e abitanti vecchi e nuovi a fare da contorno: una donna ferita che riemerge dalle macerie di se stessa, improbabili scrittori a caccia di successo, anziane signore innamorate di cantanti. L'aura che li coinvolge tutti è una benevola condivisione che trasforma i dolori in un sorriso comune, che infonde fiducia e insegna speranza, uno sguardo quasi poetico sull'esistenza. Lo stile disinvolto e lieve di Loredana Limone ci regala una sensibilità che sembra leggera ma non lo è. Perché fa sorridere, distende, mette di buon umore insegnando in maniera elegantemente garbata che la vita può anche essere presa meno seriamente.

domenica 8 febbraio 2015

Su la maschera!



Il Carnevale, festa che pare risalga addirittura a 4000 anni fa, è un tema molto frequentato in materia di saggi, storiografici, antropologici e filosofici. Mescola insieme radici pagane, contadine, celtiche, religiose, mediterranee. La storia medievale, che è quella più diffusa, cita i primi riferimenti a questa festa alla fine dell'anno 1000, grazie ad un documento del doge di Venezia. Nel periodo da ottobre fino alla fine di febbraio, popolari e nobili in maschera si mescolavano per calli e campielli, amalgamandosi in una massa indistinta e uguale che annullava le rigide distinzioni sociali e creando spesso scompigli che indussero le autorità a vietare di coprirsi il volto (per permettere il riconoscimento). Gli aspetti di questa bellissima festa sono variegati e complessi e tutti in subordine rispetto all'idea principale che la anima: la "sospensione". Giorni di festa in cui non si lavora, in cui la routine è rotta e, soprattutto, rovesciata; l'ordine costituito sovvertito, trasgressione, eccessi ed infrazioni consentiti. Il contesto ludico rappresentava l'unico momento rigenerante per un popolo spesso oppresso da una società immobile e rigida, profondamente ingiusta e non egualitaria: non a caso l'assolutismo monarchico, il clero e la nobiltà pur ammettendolo (una apparente libertà controllata e limitata a pochi giorni in un anno aiutava comunque a conservare un equilibrio sociale a loro favorevole) hanno tenuto in forte antipatia il Carnevale. Un tempo dell'anima che celebrava, nell'antichità, la rinascita e la rigenerazione della fine dell'inverno; un universo simbolico di licenze, di distruzione di un ordine opprimente, di caos liberatorio, dove indossare un volto che non fosse il proprio significa tanto celare la propria reale condizione quanto assumerne un'altra agognata.



Maschera e riso sono due potenti simboli sovversivi e oggi, ancora oggi e più che mai oggi, val la pena ricordarsene. Mutare aspetto, fingersi ciò che si vuole e non ciò che si deve, sbellicarsi dalle risate per spazzare via e alleggerire, scaricare ansie e frustrazioni, esorcizzare paure e fobie: una drammatizzazione che andrebbe favorita non solo ... semel in anno.


Per questa terapia collettiva ringrazio le seguenti letture, che in realtà mi accompagnano ormai da una vita, e non smetto, per mille motivi, di leggere e rileggere:

"L'opera di Rabelais e la cultura popolare", Michail Bachtin (1965);

"Totem e Tabù", Sigmund Freud, 1913;

Mircea Eliade, "Il mito dell'eterno ritorno", 1949;

"Il ramo d'oro", James George Frazer, 1915.

giovedì 29 gennaio 2015

Bibliopillola n. 14 - Per non perdere le sfumature di colore

Ieri sul gruppo fb si è parlato di un po' di emozioni, di quelle nate dai libri e dei motivi per cui a volte le sbrodoliamo subito addosso a chiunque ci capiti a tiro e altre volte facciamo fatica a raccontarle anche solo a noi stessi.
Altre volte non è nemmeno ben chiaro di quali emozioni si stia parlando.
Ci sono emozioni che non vogliamo riconoscere? Altre che conosciamo bene e ci sembrano poco socialmente presentabili?

Queste, ed altre, domande me le faccio da un po', per l'esattezza da quando ho terminato di leggere La cicala dell'ottavo giorno (Mitsuyo Kakuta, ed. Neri Pozza) e mi sono accorta di non riuscire a scriverne e di aver finito il libro emozionata, ma con la cosiddetta faccia a punto interrogativo.
Emozioni, si, ma quali? E per chi?

La cicala dell'ottavo giorno è il racconto di una donna che impazzisce, di una bimba sequestrata e separata dai genitori, di una famiglia che si ricostituisce e a poco a poco va avanti, di una due tre donne in una cultura come quella giapponese dove ancora agli uomini è permesso tutto e alle donne meno.

È un libro che ti spinge a prendere posizione, a schierarti da una parte o dall'altra, e, una volta schierato, a sentirti scomodo,  scomodissimo, e a ribaltare posizioni e convinzioni.
Perché nel libro le cose non sono così nette e chiare come si vorrebbe, i personaggi non sono buoni o cattivi come nelle favole e i colori non si limitano al bianco o al nero, ma obbligano a considerare tutte le infinite sfumature di colore, anche quelle sporche e bruttarelle che non vorremmo nell'arcobaleno.

Riuscireste a capire a chi si riferiscono, o di chi parlano, questi brevi estratti? Chi sono le vittime, chi i carnefici? Chi è buono o chi è cattivo?

  • Di certo non aveva mai visto così tante stelle in vita sua. (...) Le città, il mare, le montagne, il cielo infinito, la luna piena, le stagioni, i treni, gli alberi e i fiori, i luna park, gli animali, i supermercati, i negozi di giocattoli... sono tutte cose che ha potuto vedere solo nei libri illustrati. Non ha potuto conoscere e sperimentare queste cose e tante altre ancora. (...) D’ora in poi ti restituirò tutto, piccina mia (...) Ti ridarò il mare e le montagne, e anche i fiori a primavera e la neve durante l’inverno. E ti darò elefanti così enormi che non riuscirai a credere ai tuoi occhi e cani in fedele attesa dei loro padroni. E poi tante favole dal finale struggente e musica talmente bella da farti sospirare di meraviglia.
  • Essere svegliata tutte le mattine e trovare la colazione pronta in tavola; avere dei buoni amici con i quali giocare ogni giorno all'aria aperta e con i quali ridere e chiacchierare durante il pranzo; essere presa per mano alla sera da una madre premurosa e fare lunghe passeggiate insieme a lei, una madre capace di prepararti una cena gustosa sempre alla stessa ora e di leggerti le fiabe fino ad accompagnarti nel dolce mondo dei sogni; vivere in una casa pulita e ordinata, con tanto verde all'esterno, in un posto dove le persone ti salutano e ti sorridono quando le incroci per strada e dove il mare è raggiungibile a piedi: ecco ciò che avevo perduto, la vita di una principessa in una terra lontana.
  • Lui entrava e nostra madre andava via, come a darsi il cambio. Non accadeva esattamente tutte le sere, ma le volte in cui usciva superavano di gran lunga quelle in cui restava a casa. Per un bel pezzo io e Marina continuammo a pensare che lavorasse anche di notte. In seguito ci rendemmo conto che andava a divertirsi con le amiche: uno sparuto gruppo di donne di mezza età che frequentava i bar della zona, qualche discoteca e i karaoke, che giusto in quel periodo cominciavano a godere di una certa popolarità. «Non posso farci nulla» mi confessò una volta, all’epoca in cui frequentavo la scuola media, «ma ogni volta che ti guardo mi viene in mente quella donna. Il solo ricordarmi di lei mi spinge a odiare sempre di più tuo padre. Perché devo essere soltanto io a soffrire? Non ce la faccio a restarmene chiusa in casa, ho bisogno di uscire, di svagare la mente
Io mi ero fatta un'idea, poi l'ho cambiata, poi l'ho cambiata ancora e ad oggi continuo a chiedermi se l'idea è davvero così confusa o se, semplicemente, è così contraria ad ogni normale morale da non poter essere accettata.

Fonte: Editore




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