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sabato 15 ottobre 2016

Di scrittori noti ...

Raymond Carver, Di cosa parliamo quando parliamo d'amore (Einaudi Super ET)

Parlare di Carver richiede un lungo elenco di incoscienti difetti:

- far finta di ignorare che tutti i più grandi critici della letteratura mondiale si siano espressi attraverso fiumi di parole e tonnellate di pagine sulla sua opera
- osannare un genere letterario, il racconto breve, che pare essere uno dei meno amati dal pubblico dei lettori
- trascurare che comunque un'elevatissima percentuale di chi leggerà queste righe appartiene alla schiera degli amanti dei racconti e che quindi conosce alla perfezione tutta la sua produzione 
- presentare testi in cui l'essenziale, ciò che vuole essere raccontato, il senso ultimo che muove i protagonisti è volutamente e irritantemente omesso
- approcciare ad uno stile che definire minimalista è eufemistico, per cui non c'è da spendersi in roboanti descrizioni di una prosa ricca, densa, metaforica. Nulla di tutto questo. 
- fingere di non riconoscersi in quelle "persone a cui non tornano i conti" di cui lui parla riferendosi ai principali protagonisti della sua scrittura
- ammettere che leggerlo equivale a lasciarsi addosso un senso di irrisolta attesa che è l'esatta antitesi di quello che di solito ci si aspetta dalla lettura.

Fatta questa doveroso premessa mi accingo anche io a scrivere di Raymond Carver. 

Diciassette "short cuts" (il termine è del regista Robert Altman che ha intitolato così un film del 1993 tratto da suoi racconti, appunto) in cui si dovrebbe parlare dell'amore. In realtà non se ne parla mai direttamente, lo si affronta in maniera trasversale, passandoci attraverso, tagliandolo a pezzetti, esaminando qualcosa che non si capisce per definizione; e quindi non ci si aspetta affatto una risposta alla domanda "di cosa parliamo". 

Eppure c'è. 

Lo si avverte, lo si percepisce come un movimento tra le righe, con la coda dell'occhio, lo si ritrova in quello che fanno i personaggi nei loro ambienti domestici, così simili tra di loro, così implacabilmente ordinari. É il fantasma che si aggira per questi racconti affilati, lame di un'umanità devastata che vive esistenze di facciata dietro la quale si nascondono disperazione, anime incattivite, asti e rancori germogliati sull'insoddisfazione giornaliera. Vite immerse in una melma di convenzionalità dalla quale è quasi impossibile uscire, vite represse che diventano la miccia di una quotidianità che implode. Non si ha la sensazione di trovarsi al cospetto di personaggi quanto di individui conosciuti, frequentati, le cui sofferenze, le cui storie di coppia consumate, risuonano pesantemente; e fanno ancora più male perché ciniche se non crudeli. 

Ciò di cui di si parla, dunque, è raccontato con uno stile così asciutto, così scarno che più che parole sembrano sguardi attenti a ciò che circonda, uno zoom su dettagli e particolari che più che descrivere fa provare. 

Scrive Diego De Silva nella prefazione "Il talento dell'imprecisione":
(...) conta solo misurarti con la quota di verità che la tua scrittura inventa, e di cui non sospettavi l'esistenza quando hai cominciato a mettere le parole in fila.
Non è necessario che le cose si risolvano, che i conti quadrino, che capo e coda siano agli estremi opposti del racconto: questa è la lezione di Carver

Che è la lezione che ognuno di noi paga alla propria esistenza.






Bugiardini d'autunno: di campane da sollevare

Sylvia Plath, La campana di vetro (Mondadori)

Ci sono libri che aspettano. Attendono pazienti che si possa leggerli ...

 

Uno stile lineare e pulito, che traduce un pensiero adolescenziale, racconta per la prima metà del romanzo l'ingenuo affacciarsi di una ragazza diciannovenne alla società crudele e patinata dell' America degli anni Cinquanta, vincitrice di un soggiorno a New York offerto da una casa di moda per la quale dovrebbe iniziare a scrivere. L'essere catapultata fuori da una provincia molto chiusa e gretta nella grande metropoli inebria prima e pian piano destabilizza la giovane. Si disegna a poco a poco quello che la stessa protagonista chiama "uno zombie", un lato oscuro di insoddisfazione e inadeguatezza che le fa calare addosso una "campana di vetro", rinchiudendola in un mondo alienato, confondendo la necessità di proteggersi con lo schiacciarsi da sola verso l'inesorabile strada dello squilibrio. 
La seconda parte vede cambiare in maniera radicale lo stile che diventa spezzato, confuso, a tratti frenetico o insensatamente languido. 
Eran ventun notti che non dormivo. Mi sembrava che la cosa più bella del mondo doveva essere l'ombra, le mille mobili forme e i mille anfratti dell'ombra. C'era ombra nei cassetti delle scrivanie, negli armadi, nelle valigie, ombra sotto alle case, gli alberi, le pietre, ombra dietro gli occhi e i sorrisi della gente, e ombra, miglia e miglia e miglia di ombra, sulla faccia notturna della terra. 
La sua volontà è annientata, la realtà intorno si confonde con i sogni cupi di una autodeterminazione al porre fine a tutto. Tornata al suo paese il bigottismo dei concittadini, l'incapacità di comprensione della madre, l'orrore delle cure psichiatriche aggraveranno ulteriormente le sue condizioni fino a che una dottoressa non la avvierà con pazienza verso una lenta guarigione.

Mi ha molto colpito la storia della pubblicazione:
Dubito che a qualcuno mai venga in mente di leggere questo libro
Questa frase è tratta dalla lettera di rifiuto che fu inviata da una casa editrice dopo che l'autrice aveva rivelato il suo vero nome (sotto pseudonimo aveva già ricevuto un diniego da un altro editore); nonostante la sua fama di poetessa, le pagine travagliate di una donna depressa sembrarono troppo inadatte al pubblico di figli del baby boom del dopoguerra. 
Nel 1963 il romanzo fu poi pubblicato, sotto pseudonimo, da un altro editore a Londra. 

Un mese dopo Sylvia Plath morì suicida.
E' la sua unica opera in prosa e la madre ostacolò in ogni modo la pubblicazione negli Stati Uniti, dove comparve sugli scaffali solo nel 1971

Scrivevo nella prima riga di questo bugiardino che certi libri hanno un peso che va al di là del valore letterario o dell'incanto narrativo; perchè riaccendono echi, costringono a fermarsi a riflettere su quanto le convenzioni, le costruzioni ingabbianti delle morali, i pregiudizi possano diventare più spesso di quel che si possa credere campane di vetro sospese sulle nostre anime. Credo che esse si abbassino e si rialzino molte volte nel corso delle nostre esistenze, e ciò che serpeggia nelle pagine di questo romanzo è la paura segreta che cova dentro ognuno di noi di rimanere prima o poi stanchi e senza forze, rischiando di non riuscir più ad infrangere muri di cristallo. 

Così come ci si ritrova a pensare che le frustrazioni, gli sgomenti, il sentirsi incapaci o inadatti spesso più che risultato di patologie psichiatriche non sono altro che un mancato riconoscimento della diversità di ognuno di noi da parte di società fossilizzate su etiche, preconcetti, e fanatismi che diventano comportamenti standard al di fuori dei quali non si è più "normali'. Troppo spesso è lo stesso ambiente intorno a noi a tenerci entrambe le mani, su quella campana, strumentalizzando i concetti stessi di "follia" e "normalità".

E quando si chiude il libro dopo aver letto l'ultima pagina si respira a pieni polmoni guardando verso l'alto, rammaricandosi soltanto che la stessa sorte o forse lo stesso coraggio sia mancato a chi quelle pagine di riscatto finale ha scritto.

Bugiardini d'autunno: di sport e rivoluzioni

Mauro Berruto, Independiente Sporting, Baldini&Castoldi



Un libricino che regala un paio d'ore serrate di una lettura sobria ma non per questo meno intensa, misurata nei toni e nelle parole ma toccante, che unisce la bella e amara storia del Sudamerica della prima metà del Novecento con quella diversa ma sempre crudele dell'Europa delle guerre mondiali e delle migrazioni transoceaniche. 

Nel 1952 in un piccolo villaggio colombiano arrivano Ernesto e Alberto, due giovani poco più che ventenni il cui destino sarà quello di diventare gli eroi di un'intera generazione; si fermano 15 giorni per allenare una strampalata squadra di calcio di campesinos che però grazie a loro vivrà un brevissimo momento di gloria, che non li porterà a diventare famosi ma cambierà le loro vite. 

Storie di calciatori, dell'eroismo della povera gente, di un pallone di cuoio cucito a mano che rotola su un campo polveroso su cui si disegna arditamente il modulo del Grande Torino. 

Ed è bello ripercorrere tra le righe il sogno del Che, che sembra ormai anacronistico e imbolsito ma che riacquista fiamma quando i riferimenti alle tragiche traversate degli emigranti italiani verso l'Argentina ricordano il nostro Mediterraneo oggi e l'eterno pellegrinaggio di chi scappa dalla morte rischiando ancora morte. 

Un libro imprescindibile per i lettori amanti del calcio, di uno sport sano che porta ancora in sé l'eco delle gesta del Torino distrutto tragicamente sulla collina di Superga nel 1949, l'orgoglio dei giocatori argentini vittime della vergogna del cupo Mondiale del 1978 organizzato dal dittatore Videla. Ma anche per chi ha vissuto quegli anni spettatore delle tristi sorti dei desaparecidos e delle madri di Plaza de Mayo. 

Un libricino che racconta dello sport che unisce le persone e le genti, affiata, amalgama, abbatte qualsiasi egoismo o patriottismi vacui; parla di un calcio che fu, di gioco di squadra, perché da soli non si è niente e mischiando il sudore si alimenta la speranza. 

Un libricino che insegna che la fiammella dei sogni resiste anche alle tempeste più violente.

martedì 20 settembre 2016

C'era una volta il West

John Williams, Butcher's Crossing

Per onestà: John Williams l'ho conosciuto grazie al controverso "Stoner" (che, in maniera perfettamente democratica, è amato dall'una e detestato dall'altra farmacista) e quando ho letto la trama di questo suo romanzo sono rimasta un po' perplessa. Non credo di essermi mai imbattuta se non da adolescente in storie ambientate nelle regioni selvagge del West americano e l'approccio con il giovane Will Andrews che nel 1873 lascia Boston per provare il brivido della natura selvaggia del Kansas è stato diffidente. Il mito della frontiera, l'esperienza del contatto con l'inesplorato: mi sembravano plot da film più che da libro. 
E invece Williams mi ha colpita per la seconda volta; strutturando sulla caccia al bisonte (uno dei più solidi topoi della formazione culturale yankee) una trama senza grandi scossoni narrativi, riesce a costruire un racconto che tra le righe asciutte di uno stile severo come i territori da attraversare scuote dal profondo e ci precipita in uno scenario imponente e sconfinato, ci fa sudare sotto un sole torrido e patire la sete del deserto o rischiare il congelamento sulle crudeli montagne del Colorado. 
Quattro personaggi che si ritrovano messi a nudo, di fronte a se stessi e agli altri, rivelando nelle difficoltà estreme di quasi un anno di viaggio, quella lacerazione interiore che qualsiasi uomo, prima o poi nella vita, consapevolmente o meno, deve rivelare e affrontare. Il giovane in cerca di passioni mai provate, lo scafato cacciatore in eterna sfida con se stesso, l'avido scuoiatore, il servile accompagnatore provato da una vita crudele, accomunati da un'implacabile irrequietezza che li spinge ai confini del mondo, inteso come luogo conosciuto e come limite ultimo della comprensione di se stessi. La spedizione porta con sé un marchio funesto, il drammatico ritorno segna ulteriormente le vite dei protagonisti, ma il finale per chi scrive è la parte più bella di tutto il romanzo: la perfetta metafora di un'esistenza spinta da una irrazionale volontà di spingersi e mettersi alla prova pur di continuare a sentirsi vivi, pur di non ritrovarsi di notte in un letto e continuare a chiedersi perché, pur di andare, proseguire, non fermarsi. Si arde di passioni violente che avvampano devastanti per lasciare ceneri e fumo, braci di una vita sulla quale si continua a soffiare anche a rischio di bruciarsi. 

Continuo a chiedermi come si può scrivere in un modo così pulito, liscio, con frasi semplici e che potrebbero risultare inespressive, in una sequenza temporale scontata senza digressioni o ulteriori innesti narrativi, ma con una attenzione perfetta nella scelta delle parole, degli aggettivi, in modo da ottenere un effetto sicuro, d'impatto, nonostante l'assenza di iperboli, superlativi o complesse costruzioni descrittive. Basta qualche dettaglio puntuale e preciso e chi legge è catturato dalle verità mai pronunciate dei personaggi.
Probabilmente il fascino di questo scrittore (e analogamente il motivo per non sempre è amato) è la schiettezza con la quale ancora e da ogni suo romanzo riesce a chiederci se sappiamo chi siamo o cosa vogliamo essere. 

giovedì 1 settembre 2016

Primo bugiardino di settembre

Un certo Lucas, Julio Cortázar, SUR

Bozzetti di vita disegnati dalla dissacrante penna di Cortazar, a rendere splendidamente letteraria la poco riverente quotidianità della vita di tutti i giorni. 
E’ la bacchetta del Mago ad attribuire unicità ed irripetibilità a gesti comuni, addirittura insulsi; solo lui poteva permettere l’irruzione dell’ovvio nell’invenzione artistica e trasformare semplici vignette di vita in bellissimi microracconti.  
Canzoni, ricordi, articoli di giornale; impressioni di un ristorante, di ospedali, storie d’amore, amici, gatti, metrò,  tutto diventa un gioco, talvolta divertente e ridanciano, talvolta esercizio di stile criptico e intellettualistico, ma sempre  spiazzante. 
Il suo scrivere è una dilatazione della realtà in pochissime righe che il lettore (ed è un compito faticoso) deve prima intravedere poi scoprire: il suo spagnolo è insofferente, cinico, disincantato, anche volgare e parla per immagini che si scoprono potenti metafore dei nostri limiti, delle nostre paure, delle nostre dipendenze. Ci costringe a metterci in discussione, lo si legge e rilegge con la fronte aggrottata, fino a che un sorriso spiana le rughe quando tutto torna al suo posto in uno sforzo di comprensione che è il fascino stesso della sua sperimentazione.  Chi lo affronta non è mai prigioniero delle sue parole, sembra quasi che lui ci possa guardare con un sorriso ironico piantato in mezzo al viso e l’eterna sigaretta in bocca, come a dire “vediamo come ne esci”. 
E ne esci rinfrancato, perché alla letteratura non occorre la solennità o la prosopopea; 
e ne esci deliziato dall’immensa bellezza che poche frasi possono svelare dal nulla. 

Si intravede, al di là delle sperimentazioni o del semplice gioco narrativo, anche un intento poetico, di quella poesia che solo la vita di tutti i giorni può restituire. 
Se si impara a coglierla, come fanno i “cacciatori di crepuscoli”.

Comunque, se fossi un cineasta, credo che mi arrangerei in modo da andare a caccia di crepuscoli, in realtà di un unico crepuscolo, solo che per arrivare al crepuscolo definitivo dovrei filmarne quaranta o cinquanta, perché se fossi un cineasta avrei le stesse esigenze che ho con le parole, le donne o la geopolitica. Non sono un cineasta e mi consolo immaginando il crepuscolo già catturato, che dorme nella sua lunghissima spirale in scatola. Il mio piano: non soltanto la caccia, ma la restituzione del crepuscolo ai miei simili che lo conoscono poco, voglio dire alla gente di città che vede tramontare il sole, se lo vede, dietro il palazzo delle poste, dietro gli appartamenti di fronte o in un suborizzonte di antenne televisive e lampioni.




Un libro per una serata

Poche righe per un gioiellino.

Il canto dell’Essere e dell’Apparire, Cees Nooteboom, Iperborea, 1981 


Un racconto lungo, meno di cento pagine: uno scrittore olandese assillato dal senso dello scrivere dà vita ad una storia che cresce insieme al suo tormento interiore. 
Una narrazione inconsueta che si svolge su due piani paralleli, la costruzione narrativa dello scrittore e le gesta dei tre personaggi da lui inventati. 
Amsterdam alla fine degli anni 80 e la Bulgaria di fine secolo. 
Due ambientazioni, due mondi (uno reale e uno fittizio) che immancabilmente finiscono con il sovrapporsi e fondersi: chi scrive lo fa per inventarsi la vita, inventare vite o credersi Demiurgo, finendo però per ritrovarsi invischiato in ciò che sta narrando, che si rinvigorisce, acquista concretezza, diventa talmente reale da influenzarlo prima e attrarlo dopo. 
I due piani si fondono e il finale è sorprendente.  
Splendida metafora del potere della scrittura: una forza vivificatrice che non sempre si riesce a dominare e che finisce col dominarci, rendendo indefinito il confine tra finzione e realtà.


Un autore contemporaneo sicuramente originale e prolifico le cui opere, romanzi, saggi e opere teatrali sono tradotte e pubblicate da Iperborea.

Bibliopillola n. 13: Per favorire l'uscita da Sè

Fisica della Malinconia, Georgi Gospodinov, Voland, 2011

Quanto ho rivissuto, con gli occhi del bambino senza età che attraversa le storie di questo libro. Quanto ho amato, mentre leggevo, quella dolcissima, invasiva malinconia che appartiene a chi prova ciò che provano gli altri. Non è un romanzo, né uno zibaldone; non è un diario né un racconto. E’ un tempo unico, nel quale si fondono passato, presente e futuro, e ci restituisce quella interiorità così vera da dover essere necessariamente cupa. Perché è coscienza del caduco, dell’effimero, di quella transitorietà che ci caratterizza. Eppure, eppure: non è un libro triste. Perché è proprio la nostra mortalità a farci amare appassionatamente la vita, a preferire il deperibile al duraturo. Una vita troppo corta, troppo ingiusta, troppo incomprensibile: troppo bella. Solo l’incantata condizione di un bambino, la sempiterna meraviglia della novità, può insegnare che in realtà viviamo un continuum che non dimentica mai tutte le scoperte, meravigliose e terribili, dell’infanzia.

Il protagonista, che ricorda, vive e progetta scrivendo fuori dal tempo, mischia tutto come se aprisse cassetti disordinati: ne viene fuori qualcosa di labirintico, e non è un caso che la figura portante di tutto il libro sia quella del Minotauro (uno dei primi ricordi dell’infanzia), il mito della diversità abbandonata, Teseo e Arianna e il filo che permette la salvezza. Il bambino nato nella Bulgaria della Guerra Fredda, poverissima e incatenata al mito comunista, inizia a dipanare la sua esistenza a partire da questa storia mitologica, che lo stravolge perché, per la prima volta, si immedesima in qualcuno di diverso da sé (e non smetterà mai più di farlo): un esserino mostruoso che per pagare la colpa della madre è rinchiuso in un buio labirinto e alla fine perfino ucciso. Rappresenta la prima proiezione fuori di sé della più antica delle paure, l’abbandono, la prima condivisione emozionale dell’infanzia, quel periodo in cui ci si prepara alla vita senza farne ancora davvero parte, invisibili agli adulti. L’unico periodo della vita in cui l’immortalità è davvero possibile. E poi prosegue una memoria storica che arriva ai giorni nostri, mescolando generi, inseguendo un Io che si impossessa anche dei ricordi di chi è intorno a lui pur di cercarsi, di definirsi, pur di vivere anche se occupando le esistenze degli altri. Invecchiando insieme alle gioie e ai dolori di un mondo intero assume la consapevolezza  di essere sempre e comunque vivo, anche se solo, disperato, povero, famoso, ricercato. Accumula amori, testimonianze, notizie, eventi, passa attraverso luoghi diversi, percorre un secolo continuando a raccontare, come Sharazad ne “Le mille e una notte”, per salvarsi la vita.


Il passato si distingue dal presente per un dato sostanziale – non scorre mai in una sola direzione. Da dove sono partito? Meno male che scrivo, altrimenti non sarei mai riuscito a trovare il bandolo della matassa.

Un’esistenza alla ricerca di una via d’uscita dal labirinto che sperimenta emozioni, sensazioni, stili: pagine divertenti, profonde, maliziose, in cui si parla di politica, morale, sesso, culture. Sempre appassionante, accattivante, scritto benissimo.

Un libro audace, una sfida a trovare, in quello che si prevede essere un autunno del mondo, il sublime in quel “Io Siamo” che è entrare nella pelle degli altri: ascoltando, soffrendo, amando. 







giovedì 4 agosto 2016

Non Piangere, Lidye Salvayre

Il primo bugiardino che postiamo.


Ci sono libri che ti ritrovi per le mani e sono sorprese che non ti aspetti: atmosfere che ti portano indietro ad autori che furono, a titoli perduti, a una letteratura lontana.
Forse invecchiando si diventa più esigenti, si guarda criticamente alla scrittura, con diffidenza alla trama, con esasperata attenzione ai personaggi. Si legge con studio, esaminando.
Questo invece è uno di quei romanzi che dopo qualche pagina ti solleva e ti porta con sé, semplicemente, ci entri dentro ed è un’esperienza.
L’autrice nasce in Francia da rifugiati spagnoli e racconta attraverso le parole della ormai anziana madre l’estate del 1936 agli albori della guerra civile; degno di riflessione il fatto che la traduzione italiana del romanzo, a cui è stato attribuito nel 2014 il Premio Goncourt,  sia stata curata da una “piccola” casa editrice indipendente.
La scrittura è davvero trascinante (per quel poco che ne sappiamo, ottimo il lavoro di traduzione che rende benissimo il pasticciato idioma mezzo spagnolo mezzo francese della voce narrante; la quale passa spesso in terza persona lasciando il filo della narrazione alla figlia che ascolta il racconto, senza che questo disturbi minimamente la lettura); lodevole la documentazione storica che ricostruisce  luoghi ed eventi senza mai essere didascalica, costruendo uno scenario pieno della vita di personaggi uno più bello dell’altro che rappresentano le varie e controverse anime della confusa situazione politica del tempo.
Ci sono due livelli di lettura: uno più “cronachistico” che racconta il vortice di violenza che travolse franchisti, libertari, rivoluzionari, gente comune senza assolvere o giustificare nessuno.  Un quadro di generale sconvolgimento la cui interpretazione è la storia di un cambiamento mal vissuto e mal gestito, la vigilia del conflitto mondiale e il tragico monito che tutto ciò che avvampa lascia ceneri dolorose che covano per anni; che dalla parte del giusto non c’è mai nessuno se si dimentica il rispetto della vita e l’abominio della morte; che i valori non sono mai assoluti e che bisogna sempre essere disposti a cambiarli, ad azzardare lo scontro, la derisione, la condanna.
L’altro livello, invece, è pura passione. Ovunque. 
In ogni rigo, frase, negli occhi e nelle parole dei due fratelli protagonisti, dei genitori inconsapevoli e di tutte le figure che letteralmente divampano di vita, brutale, feroce, vera, che per la prima volta si fanno travolgere da una piena di emozioni appena o mai vissute, che scoprono quel disordine che al tempo stesso si ama e deprime. 
Corpi che protestano contro le censure imposte alle anime; bisogno di realtà che non può essere la vocazione alla rinuncia (ciò che tristemente insegnano le madri perché hanno paura che troppa vita la accorci troppo). 
Un innamoramento totale, di idee, visi, canzoni, che stravolge tutto, che è (questo sì) vera rivoluzione, anche se poi tutto cinicamente degenera in una guerra orribile e disperata; il ricordo radioso di un’estate, di una gioventù in cui ci si è sentiti migliori, con il cuore eternamente in tumulto, un impetuoso soffio che continua ad animarci per altri settant’anni, dissipando tutto ciò che poi di amaro la stessa vita riserva con i voltafaccia che solo lei è capace di fare.

Un libro che ha messo al sicuro tutto questo, perché c’è bisogno di soffiare ogni tanto sulle braci e rinnovare quell’infinito desiderio di poesia che è l’unico, vero motivo per cui si continua a vivere.

http://www.lasinodoroedizioni.it/novita/libro/182/non-piangere

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