sabato 13 agosto 2016

Sono Dio

Un altro  bugiardino estivo per un libro che ci ha davvero colpito. 



Sono Dio, G. Sartori, NNEditore 


Dio in persona: proprio Lui, che decide di mettersi a scrivere. Un protagonista che certo non avrebbe bisogno di raccontare e raccontarsi perché racchiude in Sè il Tutto: invece  inciampa in una banalissima (ma non troppo) vicenda su un banalissimo pianetino di una galassia periferica su cui gli è caduto casualmente l'occhio divino (se così si può dire, Dio è ovunque e non ha certo occhi); e dunque decide di testimoniare questa stranissima e assurda curiosità prendendo a prestito lo stretto e asfittico linguaggio di questa specie davvero mal riuscita. Malauguratamente, e chi scrive lo sa bene, ció lo rende dannatamente vicino e simile agli umani: si mette a nudo, le parole lo vincono e sconvolgono, la meschinità della ristrettezza sintattica lo costringe a dire cose che non sapeva di poter pensare. Lo spaccato di vita terrestre dal quale Dio è avviluppato è incredibilmente colorito e caricaturale, e proprio per questo esageratamente umano: è attratto da una biologa ricercatrice biker/punk/ninfomane e intransigentemente non solo atea ma anticlericale; intorno a lei una vegan/ecologista/animalista, ex figli dei fiori ultra sessantenni, buffi cicisbei universitari e vescovi pedofili. È davvero difficile rendere simpatico un Dio ma questo è proprio irresistibile: è curioso, presuntuoso, ogni tanto commuove perché ancora si stupisce di Se stesso e del suo creato (memorabili le descrizioni dell'universo "in cui vive", le passeggiate tra nebulose e buchi neri, le descrizioni degli incanti di un cosmo che non conosciamo);  se la ride dell'ateismo perchè può in qualsiasi momento (ma non ne abusa) divertirsi scatenando disastri e apocalissi e destra e a manca ("tragiche casualità..."); odia profondamente la Chiesa e le religioni ritenute espressioni di quel  Male che sembra essere la caratteristica migliore di questa creazione che gli è proprio riuscita pessima e che si è votata ("Io in fondo non ho fatto più niente dopo averli creati") all'estinzione. 
Il Logos alla fine prevarrà sull'infatuazione troppo umana (altrimenti che Dio sarebbe?) lasciando a noi un libro davvero originale e scritto molto bene: in maniera brillante, forbita senza essere stucchevole, divertente e colta. 

lunedì 8 agosto 2016

L'uomo che cadde sulla Terra, Walter Tevis


Solitudini di tutti i pianeti: bugiardino cosmico.

"Non è necessario"
"Che cosa non è necessario?"
"Venire da Marte. Immagino c'è anche lei si sia sentito solo abbastanza spesso, dottor Bryce. E che si sia sentito alienato. E viene da Marte, lei?"
"Non credo"
"Da Philadelphia?"
Bryce sorrise. "Da Portsmouth, Ohio. Rispetto a qui, è più lontano di Marte"


I libri per caso. Quelli che cadono dalle mensole e ti chini per raccoglierli, quelli che ti regalano, quelli che sfili casualmente da uno scaffale in libreria. Quest'ultimo appartiene a questa classe. Un libro del 1963 sfegatatamente  caldeggiato dalla libraia amica fan di David Bowie (nella trasposizione cinematografica di questo romanzo è lui a interpretare il diafano personaggio principale). Mi ci sono avvicinata sospettosa per il timore fosse un racconto di fantascienza un pó datato, quindi scontato: invece si è rivelato una bella sorpresa, che azzarderei a definire un classico fuori da etichette di genere, forse uno di quei libri necessari, a prescindere. Dopo poche pagine ci si sente vicini al malinconico Newton, alla sua misteriosa storia, al suo esilio e al suo oscuro progetto. Una figura davvero unica, di sconcertante spessore, metafora  della condizione esistenziale dell'uomo moderno. La scrittura, potentemente descrittiva, disegna luoghi e paesaggi, evoca con precisione i tratti dei volti e dei gesti, racconta di un'America (quella immaginata è abbastanza fedele ai nostri reali  anni Ottanta) alle soglie di una indefinita catastrofe politica e civile, la vigilia di un conflitto inevitabile per l'ipotizzata estensione della guerra fredda (periodo in cui Tevis scriveva).  Spietata la critica all'ipocrita middle class americana, tanto fiera e sfacciata quanto in realtà sperduta e a disagio in un mondo del quale contribuisce  a creare la facciata ignorandone con cura i meccanismi più profondi. Originale anche il leit motiv che lega i tre personaggi principali, l'extraterrestre, la donna che casualmente (ma forse no) diventa la sua governante e l'ingegnere chimico che scopre la sua reale identità e la natura dell'immenso progetto al quale ambisce: la passione per l'alcool. La bottiglia di gin che solleva i loro animi tormentati dall'immensa tristezza che li accompagna e li accomuna diventa un salvagente, l'oblio che si concedono per sentirsi al sicuro quando il bisogno di sincerità, di essere se stessi emerge prepotente. Nonostante sin dalle prime pagine sia chiara l'aliena  provenienza del protagonista, lo sviluppo della trama riserva invece un finale niente affatto scontato e sicuramente toccante. 
Terminata l'ultima pagina si resta un pó attoniti, storditi dalla bruciante consapevolezza di una inesorabile alienazione, da noi stessi, dagli altri, dal mondo che viviamo. 
Siamo tutti marziani. 

"E tutt'a un tratto, guardando di nuovo la stanza con le grigie pareti anonime e l'arredamento banale, si sentì disgustato e stanco di quel posto dozzinale ed estraneo, dunque la cultura sfacciata, chiassosa, sensuale e priva di radici, di quell'aggregato di scimmie intelligenti, pruriginose ed egoiste, volgari e spensierate, mentre la loro effimera civiltà, come il ponte di Londra della canzoncina dei bambini, stava crollando, stava crollando insieme a tutti gli altri ponti".



sabato 6 agosto 2016

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giovedì 4 agosto 2016

Non Piangere, Lidye Salvayre

Il primo bugiardino che postiamo.


Ci sono libri che ti ritrovi per le mani e sono sorprese che non ti aspetti: atmosfere che ti portano indietro ad autori che furono, a titoli perduti, a una letteratura lontana.
Forse invecchiando si diventa più esigenti, si guarda criticamente alla scrittura, con diffidenza alla trama, con esasperata attenzione ai personaggi. Si legge con studio, esaminando.
Questo invece è uno di quei romanzi che dopo qualche pagina ti solleva e ti porta con sé, semplicemente, ci entri dentro ed è un’esperienza.
L’autrice nasce in Francia da rifugiati spagnoli e racconta attraverso le parole della ormai anziana madre l’estate del 1936 agli albori della guerra civile; degno di riflessione il fatto che la traduzione italiana del romanzo, a cui è stato attribuito nel 2014 il Premio Goncourt,  sia stata curata da una “piccola” casa editrice indipendente.
La scrittura è davvero trascinante (per quel poco che ne sappiamo, ottimo il lavoro di traduzione che rende benissimo il pasticciato idioma mezzo spagnolo mezzo francese della voce narrante; la quale passa spesso in terza persona lasciando il filo della narrazione alla figlia che ascolta il racconto, senza che questo disturbi minimamente la lettura); lodevole la documentazione storica che ricostruisce  luoghi ed eventi senza mai essere didascalica, costruendo uno scenario pieno della vita di personaggi uno più bello dell’altro che rappresentano le varie e controverse anime della confusa situazione politica del tempo.
Ci sono due livelli di lettura: uno più “cronachistico” che racconta il vortice di violenza che travolse franchisti, libertari, rivoluzionari, gente comune senza assolvere o giustificare nessuno.  Un quadro di generale sconvolgimento la cui interpretazione è la storia di un cambiamento mal vissuto e mal gestito, la vigilia del conflitto mondiale e il tragico monito che tutto ciò che avvampa lascia ceneri dolorose che covano per anni; che dalla parte del giusto non c’è mai nessuno se si dimentica il rispetto della vita e l’abominio della morte; che i valori non sono mai assoluti e che bisogna sempre essere disposti a cambiarli, ad azzardare lo scontro, la derisione, la condanna.
L’altro livello, invece, è pura passione. Ovunque. 
In ogni rigo, frase, negli occhi e nelle parole dei due fratelli protagonisti, dei genitori inconsapevoli e di tutte le figure che letteralmente divampano di vita, brutale, feroce, vera, che per la prima volta si fanno travolgere da una piena di emozioni appena o mai vissute, che scoprono quel disordine che al tempo stesso si ama e deprime. 
Corpi che protestano contro le censure imposte alle anime; bisogno di realtà che non può essere la vocazione alla rinuncia (ciò che tristemente insegnano le madri perché hanno paura che troppa vita la accorci troppo). 
Un innamoramento totale, di idee, visi, canzoni, che stravolge tutto, che è (questo sì) vera rivoluzione, anche se poi tutto cinicamente degenera in una guerra orribile e disperata; il ricordo radioso di un’estate, di una gioventù in cui ci si è sentiti migliori, con il cuore eternamente in tumulto, un impetuoso soffio che continua ad animarci per altri settant’anni, dissipando tutto ciò che poi di amaro la stessa vita riserva con i voltafaccia che solo lei è capace di fare.

Un libro che ha messo al sicuro tutto questo, perché c’è bisogno di soffiare ogni tanto sulle braci e rinnovare quell’infinito desiderio di poesia che è l’unico, vero motivo per cui si continua a vivere.

http://www.lasinodoroedizioni.it/novita/libro/182/non-piangere

Di libri, bibliopillole e bugiardini ...



Il maestrale a Sud porta il fresco e raffredda un’estate rovente (come ogni, come sempre).

Complici le ferie, riapriamo la serranda: fa sempre un po’ male vedere tanta polvere in giro e pensare a quanto tempo ci vorrebbe per tenere questo posto sempre aperto e pieno di bella gente. Facciamo quel che possiamo, stringiamo i denti e strappiamo ad una inesorabile routine momenti da regalare al nostro piccolo spazio.

L’unica cosa che non ci facciamo mancare, ovviamente, sono i nostri libri, panacea per le mille frette inconsapevoli che ci consumano la vita. E quindi pensavamo di ripartire da loro: dalle nostre amate #bibliopillole e, dai, NOVITÀ, #bugiardini.

L’idea è di “giocare” come al solito sull’idea della biblioterapia, pensando ai foglietti illustrativi dei medicinali: l’Accademia della Crusca ancora si interroga sul motivo per il quale vennero chiamati così, forse in riferimento al fatto che si omettevano effetti collaterali importanti nelle indicazioni prescrittive del farmaco. “Bugiarde” si chiamavano anche le locandine che si affiggevano fuori dalle edicole e, insomma, quei brevi testi nei quali, a causa del poco spazio non si poteva scrivere tutto: giusto alcune indicazioni. Anche a rischio della scarsa veridicità.

Bene, qualche sera fa discutevamo dell’abitudine che abbiamo di scrivere sempre qualcosa appena finito di leggere un libro: chiamarle recensioni ci sembra un po’ presuntuoso, diciamo impressioni, sensazioni, motivi per il quale ci è piaciuto o no. Una valutazione personale, ma che vale solo per chi scrive e quindi … bugiarda. Perché le esperienze di lettura sono, per fortuna, sempre estremamente diverse; perché giudicare un testo presuppone competenze che per quanto si possa leggere non sempre si hanno. Eppure, ne vogliamo e ne dobbiamo scrivere: e da oggi quindi postiamo i nostri #bugiardini, lasciandoli lì alla mercé di occhialini da lettura e di nasi storti o sorrisi compiaciuti.

Purché si continui.

A parlarne e a scriverne.

A leggerne. Di libri.





E&V

martedì 12 luglio 2016

Bibliopillola n. 17 - Integratore per la paura della vecchiaia

Fa caldo, la debolezza incombe, la stanchezza fa danni, l'umidità arrugginisce... e poi ti capitano questi libri: di questo devo scrivere, anche se siamo ferme da tanto, anche se apparentemente siamo un po' arrugginite, appunto.
Il Ferro fa la Ruggine.
E’ forte, non si spezza mai, può piegarsi e curvarsi, lasciarsi corrodere da una crosta arancione, ma non perde l’anima fiera e robusta, la cui tenacia sta nella consapevolezza di un istinto proprio, felino e selvaggio, che non smarrisce lo slancio, che non accetta mai di riempire la propria vita con quella degli altri. Ruggine è la vecchia protagonista di questo romanzo di Anna Pignatelli, un’esistenza solo all’apparenza piatta (ma nessuna mai lo è, ogni vita può essere sfaccettata e imprevedibile anche se si snoda nello stesso posto) che l’ha logorata, inarcandola e temprandola, regalandole un’indulgenza indolente di fronte alla quale si china il capo.
Piegata ma non vinta.
Vive in un borgo di vecchi, fatto di tutte le cattive rughe dell’umanità, che lei imbelletta ostinata sopportando ogni oltraggio con la sua lentezza; lo attraversa con il passo lieve godendosi la grazia incantevole del mondo intorno che l’incapacità di vivere ci ha sottratto. Ama la vita nonostante tutto, e di Male ne ha provato e continuerà a provarne, ama gli uomini non perdendo mai l’interesse per loro, quasi fosse senza tempo ed eterna, immortale, continuando a tenere accesa la curiosità, aiutandosi con il vino e con l’oblio della mente, con l’inossidabile (quello sì..) amore per la naturale bellezza della natura intorno e del suo perpetrarsi attraverso le stagioni. Si lega a personaggi diversi come lei, estranei e stranieri alla meschinità e alla superstizione, anche a costo di essere tradita per l’ennesima volta, anche a costo di non ricevere l’aiuto che si aspetta da chi vive solo le strade. La sua forza è invidiata, odiata, come accade a chi resta per sempre risentito nei confronti dell’esistenza trasformandola in una ostilità che inchioda i Cristi alle croci non solo una volta l’anno.
Ferro è il suo gatto. Le loro vite sono legate indissolubilmente, è l’animale a tenerle sempre davanti agli occhi la forza del piacere e della vittoria, dell’irriverente andarsene per notti impossibili a ferirsi in zuffe per accoppiarsi, del placido riposo degli istinti appagati; è un memento costante la sua compagnia, quando accetta di trattenersi su un cuscino e rimangono a guardarsi nelle pupille, perché quel silenzioso parlarsi significa proprio che la vita s’impone con il sangue e con la lotta e ogni giorno è un’esperienza indicibile, anche se si resta fermi a fissare le fiamme del caminetto.
Le altre figure che popolano il romanzo, per lo più grette e sordide, sfilano intorno; il figlio anzitutto, ma non se ne può parlare, fa parte del male della vita; il marito defunto, un fantasma più vivo da morto di ciò che è stato invece in vita; il padrone di casa, la professoressa dirimpettaia, il bottegaio, una ragazza che non saprà decidere se accettare la sfida che silenziosamente l’anziana donna le ha lanciato; degni di nota il parroco e lo zingaro, messi al bando come lei dalla comunità raggomitolata su se stessa.
La scrittura della Pignatelli è magnifica, le parole scelte ad una ad una, d’una bellezza cesellata che non oscura gli animi che descrivono, anzi, li fa brillare di luce propria, non distrae, consente di guardare ai personaggi come se li avessimo di fronte, a scrutare nelle pieghe del viso e nei colori dei paesaggi circostanti. Una penna perfettamente dosata, limpida e densa ma senza esagerazioni.
Quando ho chiuso il libro l’ho dedicato mentalmente a mia nonna: zingara costretta ad adattarsi, a comprimere una bellezza offensiva, senza perdere però mai l’attaccamento ad una vita che l’aveva offesa (e terribilmente) molteplici volte; vita che ha amato talmente tanto che l’ultima volta che l’ho vista, e non volevo trovarla lì, con i lunghissimi capelli sciolti sul letto e una mano sul seno, le ha regalato un sorriso lieve e sornione sul volto.
Piegata ma non vinta, si è potuta permettere di morire da sola.

Non amo i superlativi, ma questo romanzo è bellissimo.

Bibliopillola per combattere la paura di invecchiare e per chi, nonostante tutto e tutti nel mondo e nella vita vuole crederci fino in fondo.

Allora Gina chiese: "E che sarebbero i Balcani?".
"Sono montagne nere. C'è solo una cosa più impressionante di loro: la strada. Quella infinita che unisce i paesi, che va dal mare ai monti, dalle pianure alle foreste. Io la conosco, la strada. Nella strada ci si imbatte nella verità". Poi aggiunse: "La parola detta per via è più vera, meno ingannevole".  
(Ruggine, Anna Pignatelli. Fazi Editore)


lunedì 14 dicembre 2015

Emozioni in Farmacia: La Rabbia

Facili all’ira sopra la terra
siamo noi di stirpe umana.
(Omero)

La rabbia è l’emozione più temuta e meno controllabile. Un accesso di collera fa affluire il sangue lungo gli arti per predisporre il corpo a scattare, la frequenza cardiaca aumenta per consentire azioni vigorose: tutto il resto passa in secondo piano, l’intero organismo è sotto lo scacco di un’ alterazione che si manifesta sotto forma di avversione verso l’esterno, gli altri o anche se stessi.

E’ l’emozione della territorialità, istintivo bisogno di relazione esclusiva e controllo con una porzione di ambiente, per soddisfare i propri bisogni, procacciarsi cibo e anche per esprimere primariamente un potere sociale. L’aggressività ha dunque la doppia funzionalità di protezione del territorio vissuto come proprio e di conquista di nuovi. Quando siamo in posizione di difesa l’aggressività è vissuta più propriamente come rabbia; se invece ci si trova in condizione di attacco-conquista con effetto positivo la si avverte come trionfo, con effetto negativo (siamo costretti a ritirarci in seguito al fallimento della nostra azione di occupazione) come ira. Un’emozione paradossale derivata da una delle polarità più complesse da gestire, poiché con gli stessi comportamenti legati alla violenza abbiamo la possibilità di proteggerci o aggredire e non è un caso che da sempre filosofia, psicologia e letteratura si interroghino alla ricerca dell’equilibrio esistenziale tra attacco-difesa.

Forse proprio per questo, la rabbia è l’emozione che più si tende a controllare durante la crescita di un individuo. Recentemente, durante un laboratorio di lettura e creatività sulle emozioni, alcune mamme hanno chiesto per quale motivo molti dei bambini avevano scelto di mettere in scena e dipingere proprio la rabbia. E se fosse perché è l’emozione che più si richiede di soffocare? L’esperienza di esprimerla liberamente recitandola deve essere stato esaltante e liberatorio per loro a fronte dei continui messaggi provenienti dagli adulti che chiedono di “non essere arrabbiati”, come se la rabbia fosse in sé sbagliata.

Filosoficamente, si è insistito sul fatto che la collera sia molto legata all'umiliazione del proprio Sé. Si reagisce di fronte ad un’offesa, un’ingiustizia, una mancanza di comprensione. Ma cercando di reagire, lo stesso Io si presenta agli altri come selvaggio, minaccioso, incapace di controllarsi, il che in talune dinamiche sociali peggiora la propria condizione di autostima. La rabbia è un’emozione evidente, che non si può nascondere, è “pubblica” e quindi soggetta a giudizio, indica quanto siamo vulnerabili nel nostro desiderio di imporci o difenderci.

Ciò che andrebbe sottolineato è che la rabbia di per sé, al pari delle altre emozioni, non è giusta o sbagliata, buona o cattiva, è il comportamento che scegliamo, quello che decidiamo di fare con essa che può essere giudicato come opportuno o meno. Espressa soltanto violentemente, con l’intenzione di nuocere all'altro, come forma di attacco, è spesso negativo, ma la funzione di difesa di sé, di protezione di diritti violati è indubitabilmente positiva. È il risultato di una frustrazione che VA espressa, poiché la repressione causa stati ben peggiori, anche a livello somatico.

Ascoltare la rabbia insegna a conoscere i nostri reali bisogni, i nostri valori, ci aiuta ad essere più autentici con noi stessi e a intrattenere relazioni più leali con le persone che ci circondano. Possiamo dunque imparare non a soffocarla ma a scegliere cosa farne, quando attaccare, quando scappare, quando difenderci o aggredire, andare verso per conquistare. E non giudichiamo, non giudichiamoci per la nostra rabbia, ma educhiamo noi stessi e i nostri bimbi ad imparare a gestirla. Responsabilmente, cioè con la consapevolezza delle conseguenze delle nostre azioni.

E facciamolo anche, perché no?, sperimentandoci nel contattare la rabbia attraverso i libri.

La letteratura è zeppa di eroi rabbiosi (pensiamo ad Achille) e frustrati, che rispondono irosi all'assurdità della vita, che è uno dei più potenti motivi di rabbia, non dimentichiamolo. 
Proporre testi che siano legati a questa emozione è davvero arduo, poiché un libro può parlare della rabbia di fronte all'ingiustizia, all'ottusità, alla propria inadeguatezza, può esso stesso suscitare rabbia (è capitato infinite volte!) per cui quella che segue è un’operazione squisitamente personale.



C. Palahniuk, Rabbia

Il primo libro che ci è venuto in mente è (non solo per l’assonanza) Rabbia di Palahniuk, autore difficile, di quelli che può perfino far arrabbiare per il modo stesso in cui scrive, spesso violento e fuori dalle righe. Trama strana, un personaggio che fa della ribellione rabbiosa la sua icona e che tramit la stessa rabbia dei suoi conoscenti viene tratteggiato per ciò che davvero è. Disvelante, insomma.  




S. Vassalli, La Chimera


Poi si è pensato a La chimera del nostro Sebastiano Vassalli, e a tutta la rabbia inghiottita tra le lacrime di fronte alla ottusa intolleranza medioevale (e non solo): la rabbia nei confronti della violenza di radice culturale, quella strumentale al potere.





M. Franzoso, Il bambino indaco

Di altro tono Il bambino indaco, di Marco Franzoso. Una storia purtroppo più comune di quel che si pensa, come testimoniano ogni anno le notizie di madri o padri che agiscono con violenza nei confronti di bimbi e neonati. Ma fa riflettere il flusso di emozioni che scatena la figura materna: madre inadeguata che si tende a giudiacre, cercare e trovare un colpevole è talmente insito in noi, che anche in questo caso la si condanna. Eppure proprio la rabbia riporta alla realtà e come uno schiaffo ricorda che non esistono solo belle e felici famiglie e belle e serene gravidanze, ma anche tante storie tristi, storie di rabbia, di rancori e che solo parlandone e affrontandole è possibile trovare uno spiraglio, se non una strada, per risalire la china.

S. Kinsella, I love shopping


Per chiudere in “leggerezza”, questo libro ci ha fatto proprio tanta rabbia: al di là del messaggio sessista donna = essere frivolo preda di manie compulsive, che già sarebbe argomento di discussione, il romanzo racconta situazioni paradossali che vogliono divertire con "leggerezza"; tutto sommato non è nemmeno scritto male, ma l’idea che si possa giocare con tanta inconsistenza su una protagonista che è una giornalista ma risulta essere terribilmente stupida, alla fine, non ci è piaciuta. Gli stereotipi si cavalcano anche grazie alla superficialità, purtroppo.





Anche questa volta attendiamo con ansia di sapere quali libri hanno suscitato in voi rabbia, l’hanno placata, l’hanno trasformata.

A presto,
Emma e Valeria

Per chi volesse approfondire, chi scrive ha letto, studiato, amato in tempi remoti e non:

Goleman D., Intelligenza Emotiva. Che cos'è e perché può renderci felici, Bur Rizzoli, 2011
Bodei, R., Ira. La passione furente, Bologna, il Mulino, 2011

































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