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mercoledì 31 agosto 2016

La lettrice scomparsa, Fabio Stassi - Bugiardino estivo


Bugiardino estivo, per chi è ancora in vacanza e per chi è già rientrato e ha già pensieri autunnali.
-Tutti i libri che ha su quella parete, signor Corso: sono solo una collezione di voci. Scrivere è soltanto il primo modo che l'uomo ha inventato per registrarla, non crede?"
Fabio Stassi è stato a suo tempo il curatore dell'edizione italiana di Curarsi con i libri e si sente. Il curatore locale, in ognuna delle edizioni del libro ha partecipato mettendoci del suo per adattare i suggerimenti terapeutici al contesto letterario nazionale, sia attraverso le citazioni di testi in italiano, sia attraverso la citazione di testi di fama internazionale, ma ormai parte del patrimonio letterario nazionale.
Più di una volta ho avuto l'impressione che Stassi riprendesse suggerimenti già dati in curarsi con i libri per inserirli nella storia dandogli la nuova veste di parte di un racconto (per quanto sempre presentati come suggerimento letterario).
Vince arriva a fare il biblioterapeuta con un bagaglio di vita e letture che si scopre poco a poco, con la convinzione (peraltro negata più volte) di dover aiutare le persone con i suoi libri e l'inevitabile senso di fallimento che ogni terapeuta dell'anima sperimenta se prima non si fa una ragione del fatto che nessuno puó essere aiutato se non si aiuta da solo.
Nel complesso l'ho trovato a tratti presuntuoso, dall'alto delle sue citazioni e conoscenze letterarie e non so se è un problema del personaggio o dell'autore che non riesco più di tanto a separare dal libro al punto che, in certi momenti, tutte i personaggi mi son sembrati parlare con la stessa voce, quella di Stassi appunto (bellissima a tal proposito Lidia, attrice in tarda età dalla voce di ragazza con la paura di perdere con la vista anche le voci dei libri).
L'intrigo giallo passa assolutamente in secondo piano rispetto alle riflessioni sulla lettura ed alla curiosità di riconoscere le innumerevoli citazioni, il finale è meno scontato di quel che mi aspettavo ma mi ha lasciato la sensazione che, tra tutti i personaggi descritti, Stassi ne abbia saltato uno... ed in un libro dove è tanto presente il tema dell'assenza ho il sospetto che non sia un caso. A voi scoprire quale personaggio è mancato a me... magari a voi ne mancheranno altri...



martedì 16 agosto 2016

Bibliopillola n. 12: Per la vita in due (che da soli non può esser vissuta)

Sembrava una felicità, Jenny Offill, NNEditore

Delicato e fragile: i primi due aggettivi che vengono in mente per questo libro. Un filo di seta teso tra una vita e l'altra, parole come pezzi di vetro. Per una strana forma di pudore è difficile scriverne come si vorrebbe, accade quando certi libri sono più specchi rotti che carta e inchiostro. Paragrafi interi sottolineati; appunti a margine. Ogni rigo rivela la forza e la gracilità dell'amore, sia esso di coppia, coniugale, filiale. O per se stessi. Puó anche commuovere questa storia: che è una storia comune e banale di una qualsiasi donna (di un qualsiasi essere umano) che cerca di essere felice tra le vicende di una vita qualunque che inesorabilmente mortifica qualsiasi ambizione. Eppure il flusso di coscienza di questa prosa spezzata, pensieri sparsi, ricordi senza un ordine, zeppa di citazioni, curiosità, proverbi è la più difficile da scrivere delle trame: la vita di ognuno di noi. 
Che certe volte non sai se ce la fai; 
che però c'è anche il profumo dei capelli di una bambina; 
che non capisci e non ti capisci; 
che puoi essere stufo di ciò che possiedi ma immagina a perderlo; 
che non puoi sempre dare istruzioni alla testa e al cuore; 
che pensare prima di agire spesso è pensare INVECE di agire, ed è un difetto, non una virtù; 
che gridi di dolore se ti abbandonano, ma anche se abbandoni. 
Che scriviamo per chiudere gli occhi. 

Una scrittrice americana che insegna Scrittura e si occupa anche di saggistica; una mirabile traduzione della NNEditore. Una penna da seguire. 

Una volta un visitatore chiese al maestro zen Ikkyu di scrivere un distillato della massima saggezza. Lui scrisse una sola parola: Attenzione.
Il visitatore rimase deluso: "Solo questo?".
E così Ikkyu lo accontentó. Due parole.
Attenzione. Attenzione. 


lunedì 15 agosto 2016

Bugiardino di Ferragosto


La metà del Diavolo, Joseph Incardona

L'infatuazione per NNEditore continua: attratta dalla copertina, ho scoperto anche questo titolo e ancora una volta non delude. Si potrebbe dire un noir: ma non lo si può ingabbiare in una definizione di genere. Tutto il libro è uno spietato occhio di bue sul nocciolo duro della realtà, il luogo in cui si pensa solo a sopravvivere, dove solo la sofferenza legittima un'esistenza disincantata; i personaggi sono intrappolati in catastrofi collegate tra loro da un Male comune; hanno smesso da tempo di cercare un senso e di chiedersi perché, pensano solo al come districarsi in una vita nuda e cruda, sordida, brutale, spietata sia per le vittime che per i carnefici. La trama è avvincente, serrata, tessuta da una prosa che alterna periodi corti e cortissimi, incalzanti, a dialoghi stringati, pensieri veloci che si affastellano; 270 pagine che si leggono avidamente se non per fermarsi con l'affanno su pause marcate dense di riflessione. Si percorre come un'autostrada: che è l'ambientazione del romanzo, un tratto limitato da casello a casello, autogrill, aree di sosta, la sporca boscaglia al di là delle recinzioni metalliche, un'umanità frenetica e distratta che non si accorge del marcio che si porta dentro. 
Impossibile raccontare di più: le vite dei vari personaggi si intersecano intorno alla sparizione di una bambina. 
Joseph Incardona, l'autore per metà svizzero e per metà siciliano, è nato nel mondo del polar e ha inanellato una serie di premi letterari d'oltralpe: mi ha ricordato spesso Thomas Harris. 
Bella scoperta. Ottima lettura. 


lunedì 8 agosto 2016

L'uomo che cadde sulla Terra, Walter Tevis


Solitudini di tutti i pianeti: bugiardino cosmico.

"Non è necessario"
"Che cosa non è necessario?"
"Venire da Marte. Immagino c'è anche lei si sia sentito solo abbastanza spesso, dottor Bryce. E che si sia sentito alienato. E viene da Marte, lei?"
"Non credo"
"Da Philadelphia?"
Bryce sorrise. "Da Portsmouth, Ohio. Rispetto a qui, è più lontano di Marte"


I libri per caso. Quelli che cadono dalle mensole e ti chini per raccoglierli, quelli che ti regalano, quelli che sfili casualmente da uno scaffale in libreria. Quest'ultimo appartiene a questa classe. Un libro del 1963 sfegatatamente  caldeggiato dalla libraia amica fan di David Bowie (nella trasposizione cinematografica di questo romanzo è lui a interpretare il diafano personaggio principale). Mi ci sono avvicinata sospettosa per il timore fosse un racconto di fantascienza un pó datato, quindi scontato: invece si è rivelato una bella sorpresa, che azzarderei a definire un classico fuori da etichette di genere, forse uno di quei libri necessari, a prescindere. Dopo poche pagine ci si sente vicini al malinconico Newton, alla sua misteriosa storia, al suo esilio e al suo oscuro progetto. Una figura davvero unica, di sconcertante spessore, metafora  della condizione esistenziale dell'uomo moderno. La scrittura, potentemente descrittiva, disegna luoghi e paesaggi, evoca con precisione i tratti dei volti e dei gesti, racconta di un'America (quella immaginata è abbastanza fedele ai nostri reali  anni Ottanta) alle soglie di una indefinita catastrofe politica e civile, la vigilia di un conflitto inevitabile per l'ipotizzata estensione della guerra fredda (periodo in cui Tevis scriveva).  Spietata la critica all'ipocrita middle class americana, tanto fiera e sfacciata quanto in realtà sperduta e a disagio in un mondo del quale contribuisce  a creare la facciata ignorandone con cura i meccanismi più profondi. Originale anche il leit motiv che lega i tre personaggi principali, l'extraterrestre, la donna che casualmente (ma forse no) diventa la sua governante e l'ingegnere chimico che scopre la sua reale identità e la natura dell'immenso progetto al quale ambisce: la passione per l'alcool. La bottiglia di gin che solleva i loro animi tormentati dall'immensa tristezza che li accompagna e li accomuna diventa un salvagente, l'oblio che si concedono per sentirsi al sicuro quando il bisogno di sincerità, di essere se stessi emerge prepotente. Nonostante sin dalle prime pagine sia chiara l'aliena  provenienza del protagonista, lo sviluppo della trama riserva invece un finale niente affatto scontato e sicuramente toccante. 
Terminata l'ultima pagina si resta un pó attoniti, storditi dalla bruciante consapevolezza di una inesorabile alienazione, da noi stessi, dagli altri, dal mondo che viviamo. 
Siamo tutti marziani. 

"E tutt'a un tratto, guardando di nuovo la stanza con le grigie pareti anonime e l'arredamento banale, si sentì disgustato e stanco di quel posto dozzinale ed estraneo, dunque la cultura sfacciata, chiassosa, sensuale e priva di radici, di quell'aggregato di scimmie intelligenti, pruriginose ed egoiste, volgari e spensierate, mentre la loro effimera civiltà, come il ponte di Londra della canzoncina dei bambini, stava crollando, stava crollando insieme a tutti gli altri ponti".



giovedì 4 agosto 2016

Di libri, bibliopillole e bugiardini ...



Il maestrale a Sud porta il fresco e raffredda un’estate rovente (come ogni, come sempre).

Complici le ferie, riapriamo la serranda: fa sempre un po’ male vedere tanta polvere in giro e pensare a quanto tempo ci vorrebbe per tenere questo posto sempre aperto e pieno di bella gente. Facciamo quel che possiamo, stringiamo i denti e strappiamo ad una inesorabile routine momenti da regalare al nostro piccolo spazio.

L’unica cosa che non ci facciamo mancare, ovviamente, sono i nostri libri, panacea per le mille frette inconsapevoli che ci consumano la vita. E quindi pensavamo di ripartire da loro: dalle nostre amate #bibliopillole e, dai, NOVITÀ, #bugiardini.

L’idea è di “giocare” come al solito sull’idea della biblioterapia, pensando ai foglietti illustrativi dei medicinali: l’Accademia della Crusca ancora si interroga sul motivo per il quale vennero chiamati così, forse in riferimento al fatto che si omettevano effetti collaterali importanti nelle indicazioni prescrittive del farmaco. “Bugiarde” si chiamavano anche le locandine che si affiggevano fuori dalle edicole e, insomma, quei brevi testi nei quali, a causa del poco spazio non si poteva scrivere tutto: giusto alcune indicazioni. Anche a rischio della scarsa veridicità.

Bene, qualche sera fa discutevamo dell’abitudine che abbiamo di scrivere sempre qualcosa appena finito di leggere un libro: chiamarle recensioni ci sembra un po’ presuntuoso, diciamo impressioni, sensazioni, motivi per il quale ci è piaciuto o no. Una valutazione personale, ma che vale solo per chi scrive e quindi … bugiarda. Perché le esperienze di lettura sono, per fortuna, sempre estremamente diverse; perché giudicare un testo presuppone competenze che per quanto si possa leggere non sempre si hanno. Eppure, ne vogliamo e ne dobbiamo scrivere: e da oggi quindi postiamo i nostri #bugiardini, lasciandoli lì alla mercé di occhialini da lettura e di nasi storti o sorrisi compiaciuti.

Purché si continui.

A parlarne e a scriverne.

A leggerne. Di libri.





E&V

martedì 12 luglio 2016

Bibliopillola n. 17 - Integratore per la paura della vecchiaia

Fa caldo, la debolezza incombe, la stanchezza fa danni, l'umidità arrugginisce... e poi ti capitano questi libri: di questo devo scrivere, anche se siamo ferme da tanto, anche se apparentemente siamo un po' arrugginite, appunto.
Il Ferro fa la Ruggine.
E’ forte, non si spezza mai, può piegarsi e curvarsi, lasciarsi corrodere da una crosta arancione, ma non perde l’anima fiera e robusta, la cui tenacia sta nella consapevolezza di un istinto proprio, felino e selvaggio, che non smarrisce lo slancio, che non accetta mai di riempire la propria vita con quella degli altri. Ruggine è la vecchia protagonista di questo romanzo di Anna Pignatelli, un’esistenza solo all’apparenza piatta (ma nessuna mai lo è, ogni vita può essere sfaccettata e imprevedibile anche se si snoda nello stesso posto) che l’ha logorata, inarcandola e temprandola, regalandole un’indulgenza indolente di fronte alla quale si china il capo.
Piegata ma non vinta.
Vive in un borgo di vecchi, fatto di tutte le cattive rughe dell’umanità, che lei imbelletta ostinata sopportando ogni oltraggio con la sua lentezza; lo attraversa con il passo lieve godendosi la grazia incantevole del mondo intorno che l’incapacità di vivere ci ha sottratto. Ama la vita nonostante tutto, e di Male ne ha provato e continuerà a provarne, ama gli uomini non perdendo mai l’interesse per loro, quasi fosse senza tempo ed eterna, immortale, continuando a tenere accesa la curiosità, aiutandosi con il vino e con l’oblio della mente, con l’inossidabile (quello sì..) amore per la naturale bellezza della natura intorno e del suo perpetrarsi attraverso le stagioni. Si lega a personaggi diversi come lei, estranei e stranieri alla meschinità e alla superstizione, anche a costo di essere tradita per l’ennesima volta, anche a costo di non ricevere l’aiuto che si aspetta da chi vive solo le strade. La sua forza è invidiata, odiata, come accade a chi resta per sempre risentito nei confronti dell’esistenza trasformandola in una ostilità che inchioda i Cristi alle croci non solo una volta l’anno.
Ferro è il suo gatto. Le loro vite sono legate indissolubilmente, è l’animale a tenerle sempre davanti agli occhi la forza del piacere e della vittoria, dell’irriverente andarsene per notti impossibili a ferirsi in zuffe per accoppiarsi, del placido riposo degli istinti appagati; è un memento costante la sua compagnia, quando accetta di trattenersi su un cuscino e rimangono a guardarsi nelle pupille, perché quel silenzioso parlarsi significa proprio che la vita s’impone con il sangue e con la lotta e ogni giorno è un’esperienza indicibile, anche se si resta fermi a fissare le fiamme del caminetto.
Le altre figure che popolano il romanzo, per lo più grette e sordide, sfilano intorno; il figlio anzitutto, ma non se ne può parlare, fa parte del male della vita; il marito defunto, un fantasma più vivo da morto di ciò che è stato invece in vita; il padrone di casa, la professoressa dirimpettaia, il bottegaio, una ragazza che non saprà decidere se accettare la sfida che silenziosamente l’anziana donna le ha lanciato; degni di nota il parroco e lo zingaro, messi al bando come lei dalla comunità raggomitolata su se stessa.
La scrittura della Pignatelli è magnifica, le parole scelte ad una ad una, d’una bellezza cesellata che non oscura gli animi che descrivono, anzi, li fa brillare di luce propria, non distrae, consente di guardare ai personaggi come se li avessimo di fronte, a scrutare nelle pieghe del viso e nei colori dei paesaggi circostanti. Una penna perfettamente dosata, limpida e densa ma senza esagerazioni.
Quando ho chiuso il libro l’ho dedicato mentalmente a mia nonna: zingara costretta ad adattarsi, a comprimere una bellezza offensiva, senza perdere però mai l’attaccamento ad una vita che l’aveva offesa (e terribilmente) molteplici volte; vita che ha amato talmente tanto che l’ultima volta che l’ho vista, e non volevo trovarla lì, con i lunghissimi capelli sciolti sul letto e una mano sul seno, le ha regalato un sorriso lieve e sornione sul volto.
Piegata ma non vinta, si è potuta permettere di morire da sola.

Non amo i superlativi, ma questo romanzo è bellissimo.

Bibliopillola per combattere la paura di invecchiare e per chi, nonostante tutto e tutti nel mondo e nella vita vuole crederci fino in fondo.

Allora Gina chiese: "E che sarebbero i Balcani?".
"Sono montagne nere. C'è solo una cosa più impressionante di loro: la strada. Quella infinita che unisce i paesi, che va dal mare ai monti, dalle pianure alle foreste. Io la conosco, la strada. Nella strada ci si imbatte nella verità". Poi aggiunse: "La parola detta per via è più vera, meno ingannevole".  
(Ruggine, Anna Pignatelli. Fazi Editore)


domenica 8 novembre 2015

Emozioni in Farmacia: La Paura




La paura non può essere senza speranza né la speranza senza paura.

(Baruch Spinoza)


Buuuuhhh!!!!
L’emozione più frequente, temuta, controversa, tra quelle che si provano quotidianamente. In genere la si rifugge, si cerca in tutti i modi di evitarla eppure … talvolta la si cerca, la si provoca.
Cosa avrà mai, di così potente, la PAURA??


Legata alla difesa e alla conservazione e fondamentale per il processo evolutivo, la paura è prodotta da una straordinaria architettura che partendo dalla sensorialità coinvolge tronco encefalico, corteccia cerebrale, ippocampo e amigdala. Un movimento colto con la coda dell’occhio mentre si cammina in una strada buia e deserta viene trasmesso e confrontato con quanto si ha in memoria per provare ad interpretarlo. Nel frattempo l’attenzione viene fissata  sul punto dove ci è sembrato di vedere qualcosa e un sistema d’allarme “neurotrasmette” (producendo noradrenalina e dopamina) segnali che ci fanno tendere i muscoli, aumentano la reattività complessiva, accelerano il battito cardiaco, rallentano la respirazione, mettono in tensione stomaco ed intestino. Lo scopo è preparare l’organismo alla fuga (o cercare un luogo dove nascondersi, si pensi alla temporanea “paralisi” che spesso la paura provoca)  mentre ci si concentra sulla valutazione della minaccia.

Ma non si tratta solo di uno stato fisiologico. Il sistema emotivo è legato alla ragione umana, si interseca con le nostre capacità logiche: pensiero ed emozione (l’antico dualismo mente e cuore) sono strettamente interconnessi.
Il pensiero filosofico, ad esempio, è figlio della paura. Nasce per scongiurare il più antico degli sgomenti, l’origine di tutte le fobie: la mancanza di conoscenza. Non sapere cosa ci possiamo aspettare, non comprendere uno sconosciuto che ci si avvicina, non riconoscere ciò che ci circonda, queste sono le radici di ogni disagio esistenziale. E’ dunque sempre originata da ALTRO da sé? Ha sempre un oggetto?
Si può anche avere paura di qualcosa di indeterminato, di non specifico: della mancanza di senso, ad esempio, della infinita serie di possibilità che si aprono davanti al nostro agire e di fronte alle quali non sappiamo che fare. La paura al cospetto di se stessi è chiamata angoscia. Camminando lungo un sentiero molto stretto, sul ciglio di un burrone, si ha paura di scivolare o di essere colpiti da un masso e quindi di perdere l’equilibrio o di uno smottamento del terreno. Ma si prova angoscia di fronte alla possibilità, per quanto remota, di decidere consapevolmente di lanciarsi giù nello strapiombo: è pur sempre una fra le infinite eventualità contemplate dalla nostra libertà di azione. Dunque l’angoscia si prova davanti alla propria incapacità di fare le scelte giuste: è una condizione umana inevitabile, tuttavia, perché ci fa prendere consapevolezza della nostra precarietà, dei nostri limiti e (paradossalmente) anche delle nostre potenzialità. Si prova angoscia di fronte alla propria libertà, essa sì, infinita, al contrario della nostra esistenza.

Rimediare alla paura e all’angoscia è un compito filosofico: l’attribuzione di senso (argomentazioni, spiegazioni, dimostrazioni, costruzioni di valori) esorcizza il malessere, l’ansia, i timori. La stessa riflessione sulla paura squarcia le ombre, illumina l’immagine di se stessi di fronte allo specchio, inducendo alla accortezza e ricordandoci la nostra vulnerabilità. Non riconoscere questa emozione come un tentativo di scongiurare l’incapacità di trovare una risposta a tutto è rischioso, può generare superstizioni, falsi ideologici: storicamente la paura è uno strumento di potere. Va invece trasformata in uno mezzo per porsi alla ricerca di se stessi:  non è detto che ci si trovi, ma il cammino vale comunque la pena.

Questo potrebbe essere il motivo per cui spesso cerchiamo la paura. Guardiamo film horror, leggiamo thriller e noir, saliamo su impervie montagne russe. Cosa ci spinge a provare un’emozione che di solito rifiutiamo, a farci paralizzare dallo sgomento, a provare i brividi dell’adrenalina? Proprio la necessità di continuare a sentirci vivi. Nonostante tutto.

Proporvi delle bibliopillole emozionali è un compito arduo: scegliere libri che fanno semplicemente paura o che la fugano? Abbiamo pensato a dei titoli che esplorano diverse sfaccettature di questa emozione perché possano diventare strumenti per una consapevole prudenza. Su noi stessi, sugli altri, sul mondo.

Ora però attendiamo le vostre: vogliamo farci emozionare da voi, conoscere gli autori che vi hanno fatto accapponare la pelle o che vi hanno insegnato a gestire o a conoscere la paura... Il senso ultimo di questo lavoro sulle emozioni è proprio la condivisione.
Grazie e buona lettura.


Guy de Maupassant, L’Horlà 

La paura dell’irrazionale, lo spavento procurato da ciò che non rientra nel naturale, nell’umano. Archetipi senza tempo: fantasmi, presenze invisibili, il doppio di se stesso. Un horror elegante, racconti che fanno della letteratura qualcosa che genera spavento. Meglio di un giro nel Castello degli Orrori.
“Oh, il ricordo! Il ricordo, immagine dolorosa, immagine bruciante, immagine vivente, orribile immagine che fa soffrire mille torture!”



Harper Lee, Il buio oltre la siepe 

La più ancestrale delle paure: la diversità. Un libro meraviglioso che racconta il razzismo e il pregiudizio nell’Alabama degli anni Trenta: insieme il male e la cura negli occhi e nelle parole dei bambini che narrano.  
“Prima di vivere con gli altri, bisogna che viva con me stesso: la coscienza è l'unica cosa che non debba conformarsi al volere della maggioranza.”





Thomas Harris, Il silenzio degli innocenti 

Un pericoloso psicopatico ed una psichiatra: l’inquietante paura di guardarsi dentro, di lasciare che qualcuno acceda alle porte di ciò che abbiamo sepolto nell’inconscio.
"Me lo dirai quando quegli agnelli smetteranno di gridare, vero?", le grida da lontano.






Margaret Atwood, Il racconto dell’ancella 

Romanzo distopico ambientato in un futuro prossimo, una società totalitaristica in cui le donne sono sottomesse. La paura della libertà, delle scelte; e la facilità con cui questa paura diventa strumento di controllo e di gestione del potere.
“Esiste più di un genere di libertà, diceva zia Lydia. La libertà di e la libertà da. Nei tempi dell’anarchia, c’era la libertà di. Adesso vi viene data la libertà da. Non sottovalutatelo”





Per chi volesse approfondire, chi scrive ha letto, studiato, amato in tempi remoti e non:

Goleman D., Intelligenza Emotiva. Che cos'è e perché può renderci felici, Bur Rizzoli, 2011
Heidegger M.,  Essere e Tempo, Mondadori, 2011
Sartre J.P., L’Essere e il Nulla, Il Saggiatore, 2008
Kierkegaard S., Il Concetto dell’Angoscia, SE, 2007

sabato 7 novembre 2015

Biblioemozioni, si parte!

Iniziamo con i post-incontri su libri ed emozioni. 

Tratteremo in ordine sparso della Paura, della Rabbia, del Disgusto, della Sorpresa, della Gioia e della Tristezza, della magica relazione tra le parole scritte e i brividi addosso, giocando con molta serietà fra generi e sentimenti, tenendo insieme poeti, letterati, filosofi psicologi. 

I colori della vita non sono solo accesi e brillanti ma tutti insieme creano quell'arcobaleno che sono le singole esistenze. A tenere i fili dei nostri stati d'animo sono anche le parole: che l'omino dei palloncini ci accompagni in un viaggio che durerà diverse settimane e che, speriamo, vi coinvolga.


sabato 24 ottobre 2015

Della Paura (per ricominciare a parlare di libri ed emozioni)



Una camminata in paese mi ha ricordato che siamo vicini ad Halloween, festa amatissima dai bambini e ripudiata da molti adulti. Samhein era una festa celtica che le comunità contadine pagane celebravano in pieno autunno e coincideva con la fine dell'anno: il sole che tramontava sempre prima simboleggiava la morte definitiva dell'estate, aprendo le porte all'inverno con i suoi fantasmi e i suoi spiriti. ll papa Gregorio IV istituì ufficialmente (il giorno dopo) la festa cristiana di Ognissanti, il 1º novembre 840. L'importanza della continuità con il passato era evidente anche a quel lontano pontefice: la festa della rinascita dopo la morte, radici cristiane innestate su tradizioni pagane. Anche per questo ritengo che scherzare con mostri e diavoli non sia dannoso per nessuno, tanto meno per i bambini. Le paure in qualche modo vanno esorcizzate e uno di questi modi è imparare a conviverci.
Come possiamo esimerci dunque da un confronto con la letteratura horror? Genere spesso bistrattato, ritenuto minore, adolescenziale, di intrattenimento.
Beh, no. I libri horror raccontano le incursioni dell'irrazionale nella realtà, cancellano i confini, annullano le distanze fra il soprannaturale e il quotidiano. La repulsione e lo spavento derivano dalla drammaticità della destabilizzazione: le sicurezze acquisite vacillano quando riemergono paure ancestrali. 
Poiché finalmente stiamo per riaprire il blog con il tanto atteso ciclo sulle emozioni, che tratteremo percorrendo i binari paralleli della psicologia e della letteratura, mi sembrava il caso di risollevare questo genere che inaspettatamente può persino proporsi sotto forma di bibliopillole. Del resto l'horror attrae proprio perché catartico: quando si sperimenta la paura, che derivi da ossessioni e fobie comuni o dal sovvertimento della routine o dalla natura ambigua degli stessi rapporti umani, tornare alle proprie esistenze non può che offrire consolazione. 
Abbiamo scelto alcuni classici che andrebbero comunque letti, a prescindere dal fatto che piaccia o no il genere.

Amleto, William Shakespeare. La trama la conosciamo tutti; il mio vecchio professore universitario la definiva "la tragedia della volontà umana", annichilita dal fantasma della propria codardia più che da quello del genitore morto. L'incapacità di vendicarsi assumendosi le proprie responsabilità. In fin dei conti è ciò che rappresenta un qualsiasi fantasma: l'irrompere e il manifestarsi dell'incognito, e non c'è nulla che ci spaventi di più, poichè costringe  a prendere provvedimenti, ad agire, e non sempre siamo pronti. Esiste una paura più ancestrale? L'incanto dei versi del Grande Bardo ci mette di fronte a noi stessi, padri e figli perennemente in cerca di risposte. O forse no.








Dracula, Bram Stoker. Il padre di tutti i vampiri della letteratura (ahinoi, anche di quelli meno leggibili degli ultimi tempi), un archetipo potente che risale addirittura all'epoca mesopotamica e nel folklore europeo, dal Medioevo in poi, non si contano le testimonianze, le opere, i documenti che citano vampiri e vampirismi. In questa figura si sommano il terrore più venale della morte (il non riconoscere una persona amata poichè tramutata in una entità sconosciuta) e l'equazione ignoto=pericoloso che è la radice di qualsiasi paura. Scritto sotto forma di diario, il romanzo di Stoker è ispirato a Vlad III principe di Valacchia ed è una delle prove più belle della letteratura ottocentesca inglese: storia, mitologia e profonda conoscenza dell'animo umano in un'atmosfera cupa egregiamente tratteggiata.








Frankenstein, Mary Shelley. Il più potente esorcismo contro la morte è dare la vita. Creare, fingersi dei, forgiare esseri viventi. La tecnica al servizio di una scienza che sfida i nostri condizionamenti (il sottotitolo originale dell'opera è Il Prometeo moderno), ma la tracotanza finisce con l'essere punita. Creatore e creatura si scambiano spesso i ruoli, all'interno del romanzo, mischiando umanità e brutalità, desiderio di perfezione e deformità. Anche qui ci ritroviamo faccia a faccia con una delle più profonde paure umane: a cosa può portare sfidare i propri limiti?











Racconti del mistero, dell'incubo e del terrore, Edgar Allan Poe. Raccolta di storie fantastiche, misteriose, uno tra i primi gialli psicologici e l'antesignano dei romanzi polizieschi (anche Conan Doyle si ispirò a Poe per Sherlock Holmes). Solo per citare: La mascherata della Morte Rossa, I delitti della rue Morgue. Piccoli capolavori in cui il brivido è davvero avvertito fisicamente: del resto la paura è particolarmente legata alle percezioni sensoriali e la particolarità di quest'autore sta nella incredibile capacità di far letteralmente provare, addosso, le sensazioni dei personaggi. 
Il pozzo e il pendolo docet. 








Buona paura a tutti. Anch'essa serve. Come vedremo tra poco.

lunedì 4 maggio 2015

Bibliopillola n. 16 - Integratore contro le convenzioni

Ho sempre osservato con estrema meraviglia il fenomeno per cui i libri che leggo sembrano sempre essere collegati l’uno all’altro da un sottile filo conduttore. A volte è una parola, a volte una città, a volte un tema più ampio, ma mi sono sempre chiesta se, ed in che modo, sono i libri a mettersi in fila per voler loro o se sono, invece, i tortuosi percorsi dei miei pensieri a creare questi fili e questa volontà libresca. Non credo, in realtà, di voler risolvere il mistero, comprendere o crearmi una spiegazione plausibile. La verità è che mi diverto molto di più semplicemente ad osservare l’ondeggiare di questi fili provando ad immaginare dove mi porteranno.
Ultimamente si sono infilati tra i miei pensieri, come tre piccole perle, Il miniaturista, di Jessie Burton, Come in una ballata di Tom Petty, dell’amico di letture Marco Patrone Recensireilmondo e Le ore di Michael Cunningham (Premio Pulitzer nel 1999).
Tre romanzi molto diversi per ambientazione, fama e argomenti, eppure in ognuno di loro ho trovato il filo, il riferimento che ha acceso la lampadina che mi ha fatto pensare per giorni e provare emozioni discordanti e, spesso, dolorose, che ancora faticano a lasciarmi.
È iniziato tutto con Il miniaturista, dove il confronto tra due donne che si pongono, nel XVII secolo, in maniera molto diversa di fronte all’istituzione Matrimonio, ha acceso la scintilla. Le due faranno scelte opposte e per motivi simili, ed il tema delle regole e delle convenzioni è molto forte.

“Sembra che Marin consideri il matrimonio una rinuncia a qualcosa, quando moltissime donne – compresa mia madre, pensa Nella – lo vedono come l’unica possibilità di esercitare una certa influenza. Il matrimonio dovrebbe imbrigliare l’amore, aumentare il potere della donna. Ma è veramente così? Marin ha ritenuto di avere più potere senza. L’amore non è stato imbrigliato, e sono successe cose incredibili”.
(Il Miniaturista - Jessie Burton)

Credevo di partire per un viaggio verso altri tempi ed altri temi quando, pochi giorni dopo, convenzioni ed aspettative mi hanno nuovamente toccato ascoltando le parole, questa volta, di un uomo:

“Avevo letto di un importante manager di una multinazionale che si era suicidato, apparentemente sopraffatto dalla competitività. Pensai che avrei potuto scriverlo io, quell’articolo: la difficoltà di frenare e trovare spazio per sé, e l’uomo che rispetto al proprio corrispettivo femminile sente come obbligatorio non mostrare debolezza e tenersi tutto dentro e ancora dover comandare senza mostrare esitazione alcuna..”
(Come in una ballata di Tom Petty – Marco Patrone).

A quel punto pensieri ed emozioni già vorticavano intorno a qualcosa che non riuscivo a definire, ma era lì, e confrontandomi con l’Autore ricordo che parlammo di come l’adeguarsi alle convenzioni ed alle aspettative non sia solo degli uomini, ma fortissimamente anche delle donne, così come la difficoltà a stare dentro le scelte fatte ed il desiderio, quasi costante, di fuga.

E, infine, sono arrivata a leggere Le ore, di Michael Cunningham e non posso non pensare che questo libro DOVEVA arrivare tra le mie mani per chiudere il cerchio che mi ha portato in viaggio attraverso le pagine di questi tre romanzi e che si è manifestato chiaramente fin dalle prime pagine.

“Sembra improvvisamente semplice preparare una torta, allevare un bambino. Ama suo figlio così semplicemente, come fanno le madri – non ce l’ha con lui, non vuole andar via. Ama suo marito, ed è contenta di essere sposata. È possibile (non è impossibile) che abbia varcato una linea invisibile: la linea che l’ha sempre separata da quello che avrebbe preferito sentire, da chi avrebbe preferito essere. Non è impossibile che sia stata soggetta a una sottile ma profonda trasformazione, qui, in cucina, in questo momento così ordinario. Ha catturato se stessa. Ha lavorato molto a lungo, molto duramente, con grande fiducia, e adesso ha afferrato il trucco per vivere felice, per vivere come un bambino impara in un determinato momento a procedere in equilibrio su una bicicletta a due ruote. Sembra che starà bene. Non si scoraggerà. Non rimpiangerà le possibilità che ha perduto, i suoi talenti inesplorati (e se non ne avesse nessuno, dopo tutto?). Rimarrà fedele a suo figlio, a suo marito, alla sua casa e ai suoi doveri, a tutte le sue cose. Vorrà avere questo secondo bambino.” ù(Le ore – Michael Cunningham)
 
Le regole, le convenzioni, le scelte, la fatica di vivere, il malessere psicologico hanno iniziato girare vorticosamente tra i miei pensieri, portandosi dietro pezzi di storia, pezzi di vita: il lavoro, il dolore, l’essere madre, la vita.
Ho faticato parecchio a scrivere di questo libro, sembravano troppi i rimandi alla mia vita ed alla Vita in generale, quella con la V maiuscola. Ho dovuto lasciar passare qualche giorno e questo è quel che rimane...

Il primo giorno ho dovuto smettere di piangere, ritrovare il respiro, il mio qui e ora. Il secondo giorno ho avuto bisogno di lasciar sedimentare pensieri ed emozioni. Il terzo giorno ho iniziato ad aver paura di perdere qualcosa di tutti quei pensieri ed emozioni. Il quarto giorno ho capito che i personaggi di questo libro, Virginia, Laura, Clarissa, Richard, saranno sempre con me e, in qualche modo, lo sono sempre stati.
In conclusione due sensazioni resteranno con me: la prima riguarda il disagio delle piccole cose. Sento continuamente, anche tra le quattro mura del mio studio, raccontare di persone che si permettono di giudicare il disagio psichico con frasi tipo “con tutto quello che ha, non ha proprio niente di cui lamentarsi, non gli manca nulla” e cose simili. In tutti i personaggi del libro ho sentito dolorosissimamente come, in certi momenti, possano essere faticose e fonte di malessere le più piccole cose. Fare una torta, scegliere rose o parole, alzarsi dal letto, mettere i piedi uno avanti all'altro e "semplicemente camminare". Il mal di vivere non è di grandi o piccoli, di ricchi o poveri, di uomini o donne. Il male di vivere può essere di ognuno di noi, in qualsiasi momento e il più delle volte riguarda norme, convenzioni e aspettative e la responsabilità di farle nostre o rifiutarle (e il lavoro con la depressione post partum è solo uno dei tanti rimandi).
La seconda cosa riguarda l'identificazione con l'una o l'altra delle tre voci (quattro in realtà) e quel che è rimasto dopo che il pulviscolo si è posato è che in me c'è un po' di ognuno dei quattro. Sarò forse un po' schizofrenica ma io sono o sono stata, o sarò prima o poi, Virginia, Laura, Clarissa o Richard. O tutti loro insieme.
Essere quel che si è, vivendo giorno dopo giorno, è in fin dei conti la fatica di vivere.

martedì 17 febbraio 2015

Elogio della Leggerezza

Solo chi è sceso in profondità può apprezzare davvero la superficie.

Non sempre la leggerezza è mancanza di serietà, frivola noncuranza o scarsa consapevolezza. Richiede un apprendistato, un esercizio costante, una determinazione che solo chi ha dedicato e speso energie per affrontare e sopportare oneri gravosi sa cosa vogliono dire. Imparare a far fronte alle mille difficoltà della vita può anche significare trovare porti sicuri nei quali rifugiarsi, protetti da moli che fermano i marosi e placano le acque. Luoghi dove ci si leccano le ferite e si rasserena l'animo, sedati da una quotidianità tranquilla, bonaria e semplice. Abitati da personaggi schietti e spassosi, che portano con sé i mille difetti ma anche le grandi virtù della gente di provincia, che se anche gioca malignamente con i pettegolezzi,  con la stessa convinzione non si tira mai indietro se c'è da offrire una spalla. O aiutare concretamente. Borghi dove, lontani dal trambusto della metropoli che soffoca e stritola, si può addirittura provare a realizzare i propri sogni, aprire botteghe, locande, biblioteche alternative, organizzare festival letterari come se fosse un evento di importanza internazionale, farsi coinvolgere, insomma, da una progettualità esistenziale che mette in pace con se stessi e con i mille lati oscuri della vita. Di ogni vita. Perché ognuno ne ha, e se li porta dentro. 
Ho prima frequentato Borgo Propizio, una amena località con tanto di castello e fantasmi, rigenerante e vivace: un paesotto popolato da persone normalissime, che rappresentano la condizione umana di chiunque, da chi cerca l'amore eterno, a chi realizza i propri sogni aprendo una latteria un po' speciale, a chi deve mettere fine a matrimoni sbagliati. E sembra che il luogo che le accomuna funga da catalizzatore di positività per ognuno di loro.  






E le stelle non stanno a guardare continua ad avere il Borgo come protagonista principale e abitanti vecchi e nuovi a fare da contorno: una donna ferita che riemerge dalle macerie di se stessa, improbabili scrittori a caccia di successo, anziane signore innamorate di cantanti. L'aura che li coinvolge tutti è una benevola condivisione che trasforma i dolori in un sorriso comune, che infonde fiducia e insegna speranza, uno sguardo quasi poetico sull'esistenza. Lo stile disinvolto e lieve di Loredana Limone ci regala una sensibilità che sembra leggera ma non lo è. Perché fa sorridere, distende, mette di buon umore insegnando in maniera elegantemente garbata che la vita può anche essere presa meno seriamente.

giovedì 29 gennaio 2015

Bibliopillola n. 14 - Per non perdere le sfumature di colore

Ieri sul gruppo fb si è parlato di un po' di emozioni, di quelle nate dai libri e dei motivi per cui a volte le sbrodoliamo subito addosso a chiunque ci capiti a tiro e altre volte facciamo fatica a raccontarle anche solo a noi stessi.
Altre volte non è nemmeno ben chiaro di quali emozioni si stia parlando.
Ci sono emozioni che non vogliamo riconoscere? Altre che conosciamo bene e ci sembrano poco socialmente presentabili?

Queste, ed altre, domande me le faccio da un po', per l'esattezza da quando ho terminato di leggere La cicala dell'ottavo giorno (Mitsuyo Kakuta, ed. Neri Pozza) e mi sono accorta di non riuscire a scriverne e di aver finito il libro emozionata, ma con la cosiddetta faccia a punto interrogativo.
Emozioni, si, ma quali? E per chi?

La cicala dell'ottavo giorno è il racconto di una donna che impazzisce, di una bimba sequestrata e separata dai genitori, di una famiglia che si ricostituisce e a poco a poco va avanti, di una due tre donne in una cultura come quella giapponese dove ancora agli uomini è permesso tutto e alle donne meno.

È un libro che ti spinge a prendere posizione, a schierarti da una parte o dall'altra, e, una volta schierato, a sentirti scomodo,  scomodissimo, e a ribaltare posizioni e convinzioni.
Perché nel libro le cose non sono così nette e chiare come si vorrebbe, i personaggi non sono buoni o cattivi come nelle favole e i colori non si limitano al bianco o al nero, ma obbligano a considerare tutte le infinite sfumature di colore, anche quelle sporche e bruttarelle che non vorremmo nell'arcobaleno.

Riuscireste a capire a chi si riferiscono, o di chi parlano, questi brevi estratti? Chi sono le vittime, chi i carnefici? Chi è buono o chi è cattivo?

  • Di certo non aveva mai visto così tante stelle in vita sua. (...) Le città, il mare, le montagne, il cielo infinito, la luna piena, le stagioni, i treni, gli alberi e i fiori, i luna park, gli animali, i supermercati, i negozi di giocattoli... sono tutte cose che ha potuto vedere solo nei libri illustrati. Non ha potuto conoscere e sperimentare queste cose e tante altre ancora. (...) D’ora in poi ti restituirò tutto, piccina mia (...) Ti ridarò il mare e le montagne, e anche i fiori a primavera e la neve durante l’inverno. E ti darò elefanti così enormi che non riuscirai a credere ai tuoi occhi e cani in fedele attesa dei loro padroni. E poi tante favole dal finale struggente e musica talmente bella da farti sospirare di meraviglia.
  • Essere svegliata tutte le mattine e trovare la colazione pronta in tavola; avere dei buoni amici con i quali giocare ogni giorno all'aria aperta e con i quali ridere e chiacchierare durante il pranzo; essere presa per mano alla sera da una madre premurosa e fare lunghe passeggiate insieme a lei, una madre capace di prepararti una cena gustosa sempre alla stessa ora e di leggerti le fiabe fino ad accompagnarti nel dolce mondo dei sogni; vivere in una casa pulita e ordinata, con tanto verde all'esterno, in un posto dove le persone ti salutano e ti sorridono quando le incroci per strada e dove il mare è raggiungibile a piedi: ecco ciò che avevo perduto, la vita di una principessa in una terra lontana.
  • Lui entrava e nostra madre andava via, come a darsi il cambio. Non accadeva esattamente tutte le sere, ma le volte in cui usciva superavano di gran lunga quelle in cui restava a casa. Per un bel pezzo io e Marina continuammo a pensare che lavorasse anche di notte. In seguito ci rendemmo conto che andava a divertirsi con le amiche: uno sparuto gruppo di donne di mezza età che frequentava i bar della zona, qualche discoteca e i karaoke, che giusto in quel periodo cominciavano a godere di una certa popolarità. «Non posso farci nulla» mi confessò una volta, all’epoca in cui frequentavo la scuola media, «ma ogni volta che ti guardo mi viene in mente quella donna. Il solo ricordarmi di lei mi spinge a odiare sempre di più tuo padre. Perché devo essere soltanto io a soffrire? Non ce la faccio a restarmene chiusa in casa, ho bisogno di uscire, di svagare la mente
Io mi ero fatta un'idea, poi l'ho cambiata, poi l'ho cambiata ancora e ad oggi continuo a chiedermi se l'idea è davvero così confusa o se, semplicemente, è così contraria ad ogni normale morale da non poter essere accettata.

Fonte: Editore




lunedì 26 gennaio 2015

Bibliopillola n. 13: Per la Memoria, tutti giorni!


Foto personale

Lavorando con la storiografia, ho a che fare spesso con le ricorrenze; in genere, non mi piacciono. Non perché sia diventata una fredda e lucida studiosa di fatti ed eventi: al contrario, temo che circoscrivere il ricordo di un episodio ad una specifica data potrebbe ridimensionare ad una sola chiave di lettura avvenimenti che invece necessitano di contesti ampi di interpretazione, al di là di barriere, etnie, religioni e ideologie.
La seconda guerra mondiale, come tutte le guerre, è stata un concentrato di orrori; nel 1944 è stata coniata la parola genocidio applicata alla Shoah e recentemente la definizione è stata aggiornata a "una forma di massacro di massa unilaterale con cui uno stato o un'altra autorità ha intenzione di distruggere un gruppo, gruppo che è definito, così come i suoi membri, dall'aggressore" (Frank Chalk e Kurt Jonassohn, 1990). La deportazione, l’eradicazione, l’esecuzione pianificata ha riguardato gli armeni, i cambogiani, i tutsi, i bosniaci.

Il 27 gennaio di settanta anni fa le truppe sovietiche dell’Armata Rossa giunsero nella città polacca di Oswiecim scoprendo il campo di concentramento e liberandone i superstiti. L’apertura dei cancelli di Auschwitz rivelò compiutamente l’orrore del genocidio nazista. Ci sono stata con i miei ragazzi nel 2009: vedere con i propri occhi il campo, le baracche, le camere a gas è qualcosa che non si può riferire a parole.
Ciò che voglio testimoniare anche io, oggi, è quello che ritengo il senso più profondo della tragedia ebraica e di tutte le tragedie che ogni guerra contemporanea ha portato e porta con sé: la banalizzazione del male.
Fonte: Editore

Nel 1961 si tenne il processo all'imputato Otto Adolf Eichmann, un tenente-colonnello del regime nazista che aveva coordinato, in tutta Europa, l'organizzazione dei trasferimenti degli ebrei verso i vari campi di concentramento e di sterminio. Processato da un tribunale israeliano, nella sua difesa tenne a precisare che, in fondo, si era occupato "soltanto di trasporti”. Il resoconto di quel processo fu pubblicato due anni dopo nel libro "La banalità del male" di Hannah Arendt. Ciò che emerge in maniera sconvolgente dagli atti è che Eichmann sembrava essere una persona “normale”: così commenteranno tutti coloro che avranno a che fare con i burocrati del Reich, uomini “normali” che però furono capaci di compiere atti mostruosi. Si difendevano dietro il grande scudo della cieca obbedienza alle leggi. Agivano rispettando ordini.

Dietro questa "terribile normalità" capace di commettere le più grandi atrocità che il mondo avesse mai visto, la Arendt rintraccia la questione della "banalità del male" che sta nella irriflessività. Uomini come Eichmann ce ne furono tanti e quei tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano terribilmente normali. E questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, poiché implica - come fu detto e ripetuto a Norimberga dagli imputati - che questo nuovo tipo di criminale
commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male. 
Il male diventa banale quando si diventa incapaci di pensare. Che non vuol dire essere stupidi, ma sottostare a cambiamenti di valori, di regole, di modi di agire senza fermarsi a meditare. Significa aderire senza riflettere, essere dislocati da forme di potere e accettarlo perché (banalmente) non ci si attarda ad emettere un giudizio.


Obbligarsi a riflettere. Tutti i giorni. Questo è per me il senso di date come quella odierna.

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