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sabato 24 ottobre 2015

Della Paura (per ricominciare a parlare di libri ed emozioni)



Una camminata in paese mi ha ricordato che siamo vicini ad Halloween, festa amatissima dai bambini e ripudiata da molti adulti. Samhein era una festa celtica che le comunità contadine pagane celebravano in pieno autunno e coincideva con la fine dell'anno: il sole che tramontava sempre prima simboleggiava la morte definitiva dell'estate, aprendo le porte all'inverno con i suoi fantasmi e i suoi spiriti. ll papa Gregorio IV istituì ufficialmente (il giorno dopo) la festa cristiana di Ognissanti, il 1º novembre 840. L'importanza della continuità con il passato era evidente anche a quel lontano pontefice: la festa della rinascita dopo la morte, radici cristiane innestate su tradizioni pagane. Anche per questo ritengo che scherzare con mostri e diavoli non sia dannoso per nessuno, tanto meno per i bambini. Le paure in qualche modo vanno esorcizzate e uno di questi modi è imparare a conviverci.
Come possiamo esimerci dunque da un confronto con la letteratura horror? Genere spesso bistrattato, ritenuto minore, adolescenziale, di intrattenimento.
Beh, no. I libri horror raccontano le incursioni dell'irrazionale nella realtà, cancellano i confini, annullano le distanze fra il soprannaturale e il quotidiano. La repulsione e lo spavento derivano dalla drammaticità della destabilizzazione: le sicurezze acquisite vacillano quando riemergono paure ancestrali. 
Poiché finalmente stiamo per riaprire il blog con il tanto atteso ciclo sulle emozioni, che tratteremo percorrendo i binari paralleli della psicologia e della letteratura, mi sembrava il caso di risollevare questo genere che inaspettatamente può persino proporsi sotto forma di bibliopillole. Del resto l'horror attrae proprio perché catartico: quando si sperimenta la paura, che derivi da ossessioni e fobie comuni o dal sovvertimento della routine o dalla natura ambigua degli stessi rapporti umani, tornare alle proprie esistenze non può che offrire consolazione. 
Abbiamo scelto alcuni classici che andrebbero comunque letti, a prescindere dal fatto che piaccia o no il genere.

Amleto, William Shakespeare. La trama la conosciamo tutti; il mio vecchio professore universitario la definiva "la tragedia della volontà umana", annichilita dal fantasma della propria codardia più che da quello del genitore morto. L'incapacità di vendicarsi assumendosi le proprie responsabilità. In fin dei conti è ciò che rappresenta un qualsiasi fantasma: l'irrompere e il manifestarsi dell'incognito, e non c'è nulla che ci spaventi di più, poichè costringe  a prendere provvedimenti, ad agire, e non sempre siamo pronti. Esiste una paura più ancestrale? L'incanto dei versi del Grande Bardo ci mette di fronte a noi stessi, padri e figli perennemente in cerca di risposte. O forse no.








Dracula, Bram Stoker. Il padre di tutti i vampiri della letteratura (ahinoi, anche di quelli meno leggibili degli ultimi tempi), un archetipo potente che risale addirittura all'epoca mesopotamica e nel folklore europeo, dal Medioevo in poi, non si contano le testimonianze, le opere, i documenti che citano vampiri e vampirismi. In questa figura si sommano il terrore più venale della morte (il non riconoscere una persona amata poichè tramutata in una entità sconosciuta) e l'equazione ignoto=pericoloso che è la radice di qualsiasi paura. Scritto sotto forma di diario, il romanzo di Stoker è ispirato a Vlad III principe di Valacchia ed è una delle prove più belle della letteratura ottocentesca inglese: storia, mitologia e profonda conoscenza dell'animo umano in un'atmosfera cupa egregiamente tratteggiata.








Frankenstein, Mary Shelley. Il più potente esorcismo contro la morte è dare la vita. Creare, fingersi dei, forgiare esseri viventi. La tecnica al servizio di una scienza che sfida i nostri condizionamenti (il sottotitolo originale dell'opera è Il Prometeo moderno), ma la tracotanza finisce con l'essere punita. Creatore e creatura si scambiano spesso i ruoli, all'interno del romanzo, mischiando umanità e brutalità, desiderio di perfezione e deformità. Anche qui ci ritroviamo faccia a faccia con una delle più profonde paure umane: a cosa può portare sfidare i propri limiti?











Racconti del mistero, dell'incubo e del terrore, Edgar Allan Poe. Raccolta di storie fantastiche, misteriose, uno tra i primi gialli psicologici e l'antesignano dei romanzi polizieschi (anche Conan Doyle si ispirò a Poe per Sherlock Holmes). Solo per citare: La mascherata della Morte Rossa, I delitti della rue Morgue. Piccoli capolavori in cui il brivido è davvero avvertito fisicamente: del resto la paura è particolarmente legata alle percezioni sensoriali e la particolarità di quest'autore sta nella incredibile capacità di far letteralmente provare, addosso, le sensazioni dei personaggi. 
Il pozzo e il pendolo docet. 








Buona paura a tutti. Anch'essa serve. Come vedremo tra poco.

lunedì 4 maggio 2015

Bibliopillola n. 16 - Integratore contro le convenzioni

Ho sempre osservato con estrema meraviglia il fenomeno per cui i libri che leggo sembrano sempre essere collegati l’uno all’altro da un sottile filo conduttore. A volte è una parola, a volte una città, a volte un tema più ampio, ma mi sono sempre chiesta se, ed in che modo, sono i libri a mettersi in fila per voler loro o se sono, invece, i tortuosi percorsi dei miei pensieri a creare questi fili e questa volontà libresca. Non credo, in realtà, di voler risolvere il mistero, comprendere o crearmi una spiegazione plausibile. La verità è che mi diverto molto di più semplicemente ad osservare l’ondeggiare di questi fili provando ad immaginare dove mi porteranno.
Ultimamente si sono infilati tra i miei pensieri, come tre piccole perle, Il miniaturista, di Jessie Burton, Come in una ballata di Tom Petty, dell’amico di letture Marco Patrone Recensireilmondo e Le ore di Michael Cunningham (Premio Pulitzer nel 1999).
Tre romanzi molto diversi per ambientazione, fama e argomenti, eppure in ognuno di loro ho trovato il filo, il riferimento che ha acceso la lampadina che mi ha fatto pensare per giorni e provare emozioni discordanti e, spesso, dolorose, che ancora faticano a lasciarmi.
È iniziato tutto con Il miniaturista, dove il confronto tra due donne che si pongono, nel XVII secolo, in maniera molto diversa di fronte all’istituzione Matrimonio, ha acceso la scintilla. Le due faranno scelte opposte e per motivi simili, ed il tema delle regole e delle convenzioni è molto forte.

“Sembra che Marin consideri il matrimonio una rinuncia a qualcosa, quando moltissime donne – compresa mia madre, pensa Nella – lo vedono come l’unica possibilità di esercitare una certa influenza. Il matrimonio dovrebbe imbrigliare l’amore, aumentare il potere della donna. Ma è veramente così? Marin ha ritenuto di avere più potere senza. L’amore non è stato imbrigliato, e sono successe cose incredibili”.
(Il Miniaturista - Jessie Burton)

Credevo di partire per un viaggio verso altri tempi ed altri temi quando, pochi giorni dopo, convenzioni ed aspettative mi hanno nuovamente toccato ascoltando le parole, questa volta, di un uomo:

“Avevo letto di un importante manager di una multinazionale che si era suicidato, apparentemente sopraffatto dalla competitività. Pensai che avrei potuto scriverlo io, quell’articolo: la difficoltà di frenare e trovare spazio per sé, e l’uomo che rispetto al proprio corrispettivo femminile sente come obbligatorio non mostrare debolezza e tenersi tutto dentro e ancora dover comandare senza mostrare esitazione alcuna..”
(Come in una ballata di Tom Petty – Marco Patrone).

A quel punto pensieri ed emozioni già vorticavano intorno a qualcosa che non riuscivo a definire, ma era lì, e confrontandomi con l’Autore ricordo che parlammo di come l’adeguarsi alle convenzioni ed alle aspettative non sia solo degli uomini, ma fortissimamente anche delle donne, così come la difficoltà a stare dentro le scelte fatte ed il desiderio, quasi costante, di fuga.

E, infine, sono arrivata a leggere Le ore, di Michael Cunningham e non posso non pensare che questo libro DOVEVA arrivare tra le mie mani per chiudere il cerchio che mi ha portato in viaggio attraverso le pagine di questi tre romanzi e che si è manifestato chiaramente fin dalle prime pagine.

“Sembra improvvisamente semplice preparare una torta, allevare un bambino. Ama suo figlio così semplicemente, come fanno le madri – non ce l’ha con lui, non vuole andar via. Ama suo marito, ed è contenta di essere sposata. È possibile (non è impossibile) che abbia varcato una linea invisibile: la linea che l’ha sempre separata da quello che avrebbe preferito sentire, da chi avrebbe preferito essere. Non è impossibile che sia stata soggetta a una sottile ma profonda trasformazione, qui, in cucina, in questo momento così ordinario. Ha catturato se stessa. Ha lavorato molto a lungo, molto duramente, con grande fiducia, e adesso ha afferrato il trucco per vivere felice, per vivere come un bambino impara in un determinato momento a procedere in equilibrio su una bicicletta a due ruote. Sembra che starà bene. Non si scoraggerà. Non rimpiangerà le possibilità che ha perduto, i suoi talenti inesplorati (e se non ne avesse nessuno, dopo tutto?). Rimarrà fedele a suo figlio, a suo marito, alla sua casa e ai suoi doveri, a tutte le sue cose. Vorrà avere questo secondo bambino.” ù(Le ore – Michael Cunningham)
 
Le regole, le convenzioni, le scelte, la fatica di vivere, il malessere psicologico hanno iniziato girare vorticosamente tra i miei pensieri, portandosi dietro pezzi di storia, pezzi di vita: il lavoro, il dolore, l’essere madre, la vita.
Ho faticato parecchio a scrivere di questo libro, sembravano troppi i rimandi alla mia vita ed alla Vita in generale, quella con la V maiuscola. Ho dovuto lasciar passare qualche giorno e questo è quel che rimane...

Il primo giorno ho dovuto smettere di piangere, ritrovare il respiro, il mio qui e ora. Il secondo giorno ho avuto bisogno di lasciar sedimentare pensieri ed emozioni. Il terzo giorno ho iniziato ad aver paura di perdere qualcosa di tutti quei pensieri ed emozioni. Il quarto giorno ho capito che i personaggi di questo libro, Virginia, Laura, Clarissa, Richard, saranno sempre con me e, in qualche modo, lo sono sempre stati.
In conclusione due sensazioni resteranno con me: la prima riguarda il disagio delle piccole cose. Sento continuamente, anche tra le quattro mura del mio studio, raccontare di persone che si permettono di giudicare il disagio psichico con frasi tipo “con tutto quello che ha, non ha proprio niente di cui lamentarsi, non gli manca nulla” e cose simili. In tutti i personaggi del libro ho sentito dolorosissimamente come, in certi momenti, possano essere faticose e fonte di malessere le più piccole cose. Fare una torta, scegliere rose o parole, alzarsi dal letto, mettere i piedi uno avanti all'altro e "semplicemente camminare". Il mal di vivere non è di grandi o piccoli, di ricchi o poveri, di uomini o donne. Il male di vivere può essere di ognuno di noi, in qualsiasi momento e il più delle volte riguarda norme, convenzioni e aspettative e la responsabilità di farle nostre o rifiutarle (e il lavoro con la depressione post partum è solo uno dei tanti rimandi).
La seconda cosa riguarda l'identificazione con l'una o l'altra delle tre voci (quattro in realtà) e quel che è rimasto dopo che il pulviscolo si è posato è che in me c'è un po' di ognuno dei quattro. Sarò forse un po' schizofrenica ma io sono o sono stata, o sarò prima o poi, Virginia, Laura, Clarissa o Richard. O tutti loro insieme.
Essere quel che si è, vivendo giorno dopo giorno, è in fin dei conti la fatica di vivere.

giovedì 29 gennaio 2015

Bibliopillola n. 14 - Per non perdere le sfumature di colore

Ieri sul gruppo fb si è parlato di un po' di emozioni, di quelle nate dai libri e dei motivi per cui a volte le sbrodoliamo subito addosso a chiunque ci capiti a tiro e altre volte facciamo fatica a raccontarle anche solo a noi stessi.
Altre volte non è nemmeno ben chiaro di quali emozioni si stia parlando.
Ci sono emozioni che non vogliamo riconoscere? Altre che conosciamo bene e ci sembrano poco socialmente presentabili?

Queste, ed altre, domande me le faccio da un po', per l'esattezza da quando ho terminato di leggere La cicala dell'ottavo giorno (Mitsuyo Kakuta, ed. Neri Pozza) e mi sono accorta di non riuscire a scriverne e di aver finito il libro emozionata, ma con la cosiddetta faccia a punto interrogativo.
Emozioni, si, ma quali? E per chi?

La cicala dell'ottavo giorno è il racconto di una donna che impazzisce, di una bimba sequestrata e separata dai genitori, di una famiglia che si ricostituisce e a poco a poco va avanti, di una due tre donne in una cultura come quella giapponese dove ancora agli uomini è permesso tutto e alle donne meno.

È un libro che ti spinge a prendere posizione, a schierarti da una parte o dall'altra, e, una volta schierato, a sentirti scomodo,  scomodissimo, e a ribaltare posizioni e convinzioni.
Perché nel libro le cose non sono così nette e chiare come si vorrebbe, i personaggi non sono buoni o cattivi come nelle favole e i colori non si limitano al bianco o al nero, ma obbligano a considerare tutte le infinite sfumature di colore, anche quelle sporche e bruttarelle che non vorremmo nell'arcobaleno.

Riuscireste a capire a chi si riferiscono, o di chi parlano, questi brevi estratti? Chi sono le vittime, chi i carnefici? Chi è buono o chi è cattivo?

  • Di certo non aveva mai visto così tante stelle in vita sua. (...) Le città, il mare, le montagne, il cielo infinito, la luna piena, le stagioni, i treni, gli alberi e i fiori, i luna park, gli animali, i supermercati, i negozi di giocattoli... sono tutte cose che ha potuto vedere solo nei libri illustrati. Non ha potuto conoscere e sperimentare queste cose e tante altre ancora. (...) D’ora in poi ti restituirò tutto, piccina mia (...) Ti ridarò il mare e le montagne, e anche i fiori a primavera e la neve durante l’inverno. E ti darò elefanti così enormi che non riuscirai a credere ai tuoi occhi e cani in fedele attesa dei loro padroni. E poi tante favole dal finale struggente e musica talmente bella da farti sospirare di meraviglia.
  • Essere svegliata tutte le mattine e trovare la colazione pronta in tavola; avere dei buoni amici con i quali giocare ogni giorno all'aria aperta e con i quali ridere e chiacchierare durante il pranzo; essere presa per mano alla sera da una madre premurosa e fare lunghe passeggiate insieme a lei, una madre capace di prepararti una cena gustosa sempre alla stessa ora e di leggerti le fiabe fino ad accompagnarti nel dolce mondo dei sogni; vivere in una casa pulita e ordinata, con tanto verde all'esterno, in un posto dove le persone ti salutano e ti sorridono quando le incroci per strada e dove il mare è raggiungibile a piedi: ecco ciò che avevo perduto, la vita di una principessa in una terra lontana.
  • Lui entrava e nostra madre andava via, come a darsi il cambio. Non accadeva esattamente tutte le sere, ma le volte in cui usciva superavano di gran lunga quelle in cui restava a casa. Per un bel pezzo io e Marina continuammo a pensare che lavorasse anche di notte. In seguito ci rendemmo conto che andava a divertirsi con le amiche: uno sparuto gruppo di donne di mezza età che frequentava i bar della zona, qualche discoteca e i karaoke, che giusto in quel periodo cominciavano a godere di una certa popolarità. «Non posso farci nulla» mi confessò una volta, all’epoca in cui frequentavo la scuola media, «ma ogni volta che ti guardo mi viene in mente quella donna. Il solo ricordarmi di lei mi spinge a odiare sempre di più tuo padre. Perché devo essere soltanto io a soffrire? Non ce la faccio a restarmene chiusa in casa, ho bisogno di uscire, di svagare la mente
Io mi ero fatta un'idea, poi l'ho cambiata, poi l'ho cambiata ancora e ad oggi continuo a chiedermi se l'idea è davvero così confusa o se, semplicemente, è così contraria ad ogni normale morale da non poter essere accettata.

Fonte: Editore




lunedì 26 gennaio 2015

Bibliopillola n. 13: Per la Memoria, tutti giorni!


Foto personale

Lavorando con la storiografia, ho a che fare spesso con le ricorrenze; in genere, non mi piacciono. Non perché sia diventata una fredda e lucida studiosa di fatti ed eventi: al contrario, temo che circoscrivere il ricordo di un episodio ad una specifica data potrebbe ridimensionare ad una sola chiave di lettura avvenimenti che invece necessitano di contesti ampi di interpretazione, al di là di barriere, etnie, religioni e ideologie.
La seconda guerra mondiale, come tutte le guerre, è stata un concentrato di orrori; nel 1944 è stata coniata la parola genocidio applicata alla Shoah e recentemente la definizione è stata aggiornata a "una forma di massacro di massa unilaterale con cui uno stato o un'altra autorità ha intenzione di distruggere un gruppo, gruppo che è definito, così come i suoi membri, dall'aggressore" (Frank Chalk e Kurt Jonassohn, 1990). La deportazione, l’eradicazione, l’esecuzione pianificata ha riguardato gli armeni, i cambogiani, i tutsi, i bosniaci.

Il 27 gennaio di settanta anni fa le truppe sovietiche dell’Armata Rossa giunsero nella città polacca di Oswiecim scoprendo il campo di concentramento e liberandone i superstiti. L’apertura dei cancelli di Auschwitz rivelò compiutamente l’orrore del genocidio nazista. Ci sono stata con i miei ragazzi nel 2009: vedere con i propri occhi il campo, le baracche, le camere a gas è qualcosa che non si può riferire a parole.
Ciò che voglio testimoniare anche io, oggi, è quello che ritengo il senso più profondo della tragedia ebraica e di tutte le tragedie che ogni guerra contemporanea ha portato e porta con sé: la banalizzazione del male.
Fonte: Editore

Nel 1961 si tenne il processo all'imputato Otto Adolf Eichmann, un tenente-colonnello del regime nazista che aveva coordinato, in tutta Europa, l'organizzazione dei trasferimenti degli ebrei verso i vari campi di concentramento e di sterminio. Processato da un tribunale israeliano, nella sua difesa tenne a precisare che, in fondo, si era occupato "soltanto di trasporti”. Il resoconto di quel processo fu pubblicato due anni dopo nel libro "La banalità del male" di Hannah Arendt. Ciò che emerge in maniera sconvolgente dagli atti è che Eichmann sembrava essere una persona “normale”: così commenteranno tutti coloro che avranno a che fare con i burocrati del Reich, uomini “normali” che però furono capaci di compiere atti mostruosi. Si difendevano dietro il grande scudo della cieca obbedienza alle leggi. Agivano rispettando ordini.

Dietro questa "terribile normalità" capace di commettere le più grandi atrocità che il mondo avesse mai visto, la Arendt rintraccia la questione della "banalità del male" che sta nella irriflessività. Uomini come Eichmann ce ne furono tanti e quei tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano terribilmente normali. E questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, poiché implica - come fu detto e ripetuto a Norimberga dagli imputati - che questo nuovo tipo di criminale
commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male. 
Il male diventa banale quando si diventa incapaci di pensare. Che non vuol dire essere stupidi, ma sottostare a cambiamenti di valori, di regole, di modi di agire senza fermarsi a meditare. Significa aderire senza riflettere, essere dislocati da forme di potere e accettarlo perché (banalmente) non ci si attarda ad emettere un giudizio.


Obbligarsi a riflettere. Tutti i giorni. Questo è per me il senso di date come quella odierna.

domenica 18 gennaio 2015

Bibliopillola n.12 - Integratore vitaminico del Sé


Come ho scritto in una recensione, non mi capitava da un po' di chiudere un libro con la sensazione di aver avuto a che fare con la letteratura.
Una penna seria, autorevole, un implacabile faro proiettato su una coscienza messa a nudo.
Il protagonista non è ovviamente un eroe, ma ha un che di eroico la sua normalissima esistenza; a molti risulta insulso, inetto, addirittura esasperante. Sembra che rimanga lì a vedersi scivolare una vita addosso, incapace (perché spesso abulico) di dare una piega diversa agli eventi, di imporsi, di arrabbiarsi. Eppure non si tratta di un individuo inconsapevole, poiché riflette su ogni dettagliata situazione, scandaglia gli animi di tutti coloro che lo circondano, spesso supponendo fatti e azioni, con ineluttabile rassegnazione. Una vita che definiremmo più che ordinaria, banale; la sua indifferenza snerva.
Certe volte, la mattina, quando si faceva la barba, guardava la sua immagine riflessa nello specchio e non si riconosceva affatto in quel viso che ricambiava stupito il suo sguardo, in quegli occhi chiari che spuntavano da una maschera grottesca
Fonte: Editore


domenica 4 gennaio 2015

Bibliopillola n. 11: Per chi ha bisogno di aiuto e di aiutare

“Se è troppo orgoglioso per accettare aiuto, come potete aiutarlo? Di notte, mentre dorme?”
Yalom, Irvin D. Le lacrime di Nietzsche
 Fonte: Neri Pozza

Il tema dell’aiuto, della cura, mi è da sempre così caro che, anche quando insieme alla socia filosofa abbiamo deciso di parlare di libri, siamo riuscite a farlo mettendo al centro proprio il tema della terapia, attraverso la lettura e i libri. 

E anche qui, dal bancone della farmacia non ho mai potuto evitare di pormi domande che mi accompagnano quotidianamente anche sul lavoro. Chi ha bisogno di aiuto? Solo chi chiede? E se io penso che qualcuno abbia bisogno di aiuto ho il diritto, il dovere, di aiutarlo anche se non vuole? E io, qual è il mio bisogno nel soddisfare e curare l'altro?

domenica 5 ottobre 2014

Bibliopillola n.9 Contro la demotivazione

La mia socia di ApoTeche mi ha regalato un libro (abbiamo poca fantasia, è vero...) che mi è piaciuto molto. Ed è capitato, come accade spesso quando si riceve un libro da chi li ama, che mi arrivasse per le mani il titolo giusto nel momento giusto. Era appena iniziata la scuola, mi stavo adattando pian piano alla routine del calendario provvisorio, cominciando a frequentare le nuove classi di quest'anno e a riprendere il lavoro con le vecchie. E non facevo che pensare, in quei giorni di meno di un mese fa, a quanto mai come alla fine del passato anno scolastico il tanto bistrattato, calunniato, avvilito, deprofessionalizzato, irriso lavoro del docente mi fosse pesato tanto. L'ultima sessione di esami di stato l'ho vissuta per svariati motivi molto faticosamente  e conclusi gli orali ero sfatta. In tutti i sensi. Ma ci sono cose in cui non si può fare a meno di credere, nonostante, di anno in anno, aumenti progressivamente la fatica, lo sconforto, la disillusione, perfino il dolore.
Chi insegna oggi sa cosa dico.
Fa parte della nostra natura combattere per la sopravvivenza e ho imparato molti anni fa che questa non riguarda  soltanto il tenerci in vita nel senso strettamente biologico del termine.
Non ci basta vivere: o meglio, non si tratta solo di vivere, ma di vedere riconosciuta ed espressa la possibilità di essere in qualche modo se stessi. Il che presuppone una lunga e mai conclusa ricerca di una definizione del sé: sottolineo incompiuta poiché credo che in questo si traduca il più profondo senso del nostro esistere, nel continuo cercarsi. Dunque, nel dirsi.
Per fortuna la scuola non è fatta solo di registri, voti, esami, crediti, scrutini e consigli di classe.
Un blogger/collega/scrittore che in questa farmacia stimiamo molto, Alessandro d'Avenia, lo scrive spesso e bene, nel suo spazio virtuale. E lo sperimenta fra i banchi. La scuola è quel delicato e meraviglioso rapporto con i ragazzi. La scuola È i ragazzi. Nei quali tutte le mattine per 11 mesi all'anno ti specchi, ti ascolti, ti sorridi. Quelli a cui ti offri con tutta l'anima perché imparino a stringere i denti e a non smettere mai di cercarsi. Confesso che se ho qualche vaga e sbordata definizione di me stessa lo devo proprio a loro. Eppure conclusi gli esami a luglio ero davvero, oltre che stanca, avvilita; soprattutto, demotivata. Questo è il motivo per cui ho pensato di esporre sul bancone il libro che per me è stata una bibliopillola inghiottita con molta convinzione e che ha avuto un immediato e benefico effetto.

Recalcati - L'ora di lezione - Einaudi
 Una scrittura scorrevole ma profonda, una riflessione serena ma implacabile sull'insegnamento ormai scarnificato a mera trasmissione di competenze sempre meno tali e sempre più sterili informazioni, un inno a quello che invece è per molti il mestiere più bello del mondo, perduto all'interno di una scuola smarrita, icona di una società che ha imparato e insegna a fare a meno dei maestri. Eppure, ciò che oggi serve davvero tanto, ciò che potrebbe operare il miracolo di restituire dignità ad una generazione spersonalizzata in un mare confuso di nozioni disponibilissime ma spesso superficiali o vuote, è proprio chi con le proprie parole crea. Chi inventa mondi, vite, luoghi e storie; chi spinge a pensare, chi cancella limiti e confini, chi trasforma in oggetto erotico, in qualcosa da amare come fosse un corpo, i libri e il sapere.

"Trasformare l'allievo come oggetto sul quale si applica un sapere - testa o bocca vuota (recipiente) da riempire, vite storta da raddrizzare - in un soggetto che ricerca attivamente quello di cui manca, che si senta trasportato, attirato, catturato verso un sapere nuovo"
Le parole sono importanti. Hanno una materialità, densa e fisica, da stringere e amare.
E un'ora di lezione può cambiare la vita.


mercoledì 3 settembre 2014

Bibliopillola n. 8: Contro la dispersione

Un silenzio innaturale che profuma di autunno ha pervaso la casa, una quiete ovattata che concilia riflessioni serene ma fa anche irrimediabilmente prudere le dita. Ci sono condizioni dell'anima, talvolta, che devono necessariamente sfociare in qualcosa di scritto, per completarsi.
Ecco perché dal mio divano immerso in una penombra che sa di odore di pioggia rialzo le saracinesche della Farmacia. D'altronde, si sa, è autunno. La stagione della ripresa, dei buoni propositi, delle liste di cose da fare... il mese in cui ci illudiamo di vivere un'esistenza programmabile e prevedibile. Ma ci serve, ne abbiamo bisogno, non possiamo fare a meno di progettarci, di inserirci in una continuità temporale, di pensare a noi stessi come a identità compiute. Che ovviamente non siamo mai.
La prima chiacchiera autunnale qui, fra i nostri scaffali, mentre tolgo un po' di polvere e faccio arieggiare i locali (qualcuno il caffè lo prepara, vero?) scaturisce da una frase che la mia socia ha scritto ieri in un post.
Ogni volta che torna dalla sua Sardegna, ci lascia un pezzo di cuore; e si chiede:
"Si può vivere con i pezzi rimasti?"

Mi sono immaginata come una specie di mosaico che si va sfaldando, che perde tessere ad ogni svolta esistenziale. Ma poi ho pensato che forse è il contrario: siamo fatti di tanti tasselli diversi, mischiati, uniti, ricomposti dalla vita ogni volta che si scava l'ennesima ruga sui nostri volti. Siamo sfaccettati, un'immagine anamorfica che ha un senso solo se osservata da lontano, nella quale ci riconosciamo per un po' e nel frattempo siamo già lì a rimestare i nostri elementi.
Si può vivere di pezzi, certo. Tutti quelli che ogni volta rimangono, finché non ne troviamo altri. Talvolta anche con pochissimi. Spesso con troppi.
Piuttosto, quello che davvero ci occorre è un buon collante. Qualcosa che ci permetta di saldare la nostra se pur temporanea forma compiuta. Un sostrato adesivo che ci tenga insieme.
Insomma, la stagione la apro con una bibliopillola. Una sorta di Attack per l'anima. Perché spesso si ha paura, quando si cerca di riunirsi, di ricomporsi, di riconoscersi.  Perdite di sé cicliche che ci sbandano e ci scombussolano.
C'è stato un libro, anni fa, che mi ha insegnato a non farmi prendere dal panico quando si perde l'orientamento di se stessi; un libro in cui il protagonista, in precario equilibrio, si ritrova a dover fare  i conti con volti e luoghi sconosciuti, all'inizio confusi, turbinanti come la neve di Sapporo, ma che si svelano in realtà essere volteggianti, a costituire nuovamente qualcosa che acquista senso solo se inseguita passo dopo passo.
"- Finora tu hai perso molte cose. Molte cose preziose. Il problema non è sapere di chi è la colpa. Il problema è che tu attaccavi sempre qualcosa di te a tutte le cose che perdevi. Non avresti dovuto. Avresti dovuto tenere qualcosa da parte per te, invece di lasciarla andare via con il resto. Così ti sei consumato poco a poco. Perché? Perché l'hai fatto?

- Non lo so."
Che questa bibliopillola vi porti al vostro personale Dolphin Hotel, dove s'impara che non si finisce mai di disgregarsi e ricomporsi, purché non ci si dimentichi mai di danzare.

"Capisci quello che ti sto dicendo? Devi danzare, finché ci sarà musica. Capisci quello che ti sto dicendo? Devi danzare senza mai fermarti."
Murakami Haruki, Dance dance dance



mercoledì 6 agosto 2014

BiblioTrendy

Biblioterapie, farmacie letterarie, bibliopillole, libri in tutte le posologie e salse e forme. 
Saggi, racconti, ora anche romanzi e anche in questo pare ci sia una Farmacia Letteraria... galleggiante.

Beh, pare che, da modeste lettrici, abbiamo spontaneamente intrapreso un percorso che comincia a fare tendenza. Che è una parola che onestamente un po' ci spaventa, lo confessiamo... 
Il fatto che se ne parli molto, e che ne parlino in tanti (in questi giorni per esempio CaffeinaMagazine e LaRepubblica.it), sarà sempre sacrosanta salvaguardia di una democraticitá di fondo, ci mancherebbe, ma una sensazione di lieve prurito alla schiena è sempre lì, in questi casi, a ricordarci che per appassionarsi a qualcosa non basta una moda. Occorrono competenze. Studio. Lavoro.
POI se ne può pure parlare. Con cognizione di causa.
Un principio che varrebbe un po' per tutto e che tragicamente, invece, ha lasciato il posto ad una tuttologia facilona, per cui basterebbe leggere alla svelta un paio di articoli presi non si sa bene da dove per esprimersi consapevolmente su un qualsiasi argomento.
Ecco, accade anche drammaticamente a scuola: si legge una sintesi sul Rinascimento ergo si sa tutto sul Rinascimento (un esempio a caso! :))
Comunque sia, le tendenze che hanno a che fare con i libri per lo meno ci incuriosiscono; sicuramente leggeremo il romanzo in questione, così ne chiacchiereremo ex professo nella nostra Farmacia!
Approfittiamo per augurare Buone Ferie a tutti!
A settembre torneremo più agguerrite che mai…. 

Anche perché nelle nostre valigie ci sono sempre più libri che vestiti! 


Fonte: Web


A Presto!
Emma&Valeria

mercoledì 28 maggio 2014

Bibliopillola n. 7 Contro la stanchezza

Ci sono giornate in cui la stanchezza ti divora. Ti consuma da dentro, ti rende passiva, riottosa, ti lega per terra con due blocchi di cemento per piedi, il cuore gonfio e la testa svuotata. Ci sono giornate che arriva la sera e ti chiedi come sia successo, che ti svegli al mattino e ti sembra di non aver dormito affatto, ore di non-riposo trascorse in un irrequieto dormiveglia in cui si confondono incubi da desta e sogni che nemmeno riesci più a fare. Una stanchezza che ti chiedi perché, conseguenza di attività che spesso e con sgomento ti ritrovi a considerare marginali, rispetto a quelle che davvero vorresti ti stancassero, se non addirittura inutili, stupide. Sprechiamo noi stessi e il nostro tempo a sbrigare incombenze, faccende e iter assolutamente monotoni, alienanti, incredibilmente lontani da quello che vorremmo realizzare di noi attraverso il lavoro. Una stanchezza avvilente e mortificante.
Ecco, questo è uno dei malanni che più mi affligge, da qualche anno a questa parte. E nonostante gli occhi alla sera brucino e le palpebre calino con pesantezza, mettermi a leggere mi dona quell'ora di quiete che è molto simile ad un appagamento, una sorta di risarcimento per un pezzettino di vita che sento con un nodo alla gola irrimediabilmente sacrificato.
Mentre mi arrabattavo dietro il bancone della farmacia ho pertanto pensato stasera ad una prescrizione complessa, una confezione multipla; perché mi è capitato di ascoltare opinioni contrastanti su quali generi, autori e testi possano risollevare dalla stanchezza.
C'è chi preferisce una leggerezza consapevole, che soffi aria fresca in una mente intasata per distrarsi: un po' come sedersi all'ombra di un bell'ulivo in un pomeriggio di canicola.
Chi invece non si rassegna a leggere qualcosa di meno impegnato e nella complessità di stili letterari forti, fra le parole di personaggi umani e anche sofferenti, trova un coinvolgimento emotivo e artistico che comunque svaga.
Chi ha assolutamente bisogno di parole che incollino alle pagine, di trama ed emozione, della scarica adrenalica dei gialli, ad esempio.
Chi infine (ma non ultimo) deve sbrigliare la fantasia verso luoghi immaginari e racconti chimerici, abitando castelli, Terre di Mezzo o foreste popolate da unicorni.
Dunque tante prescrizioni stasera, contro la stanchezza: scegliete voi la bibliopillola che più vi aggrada, che più vi è consona.
E riposate membra e pensieri facendovi trasportare in tutte quelle vite che potete fare, comunque, vostre.

Ali di Babbo, Milena Agus, Nottetempo.
Semplice, ma non banale; leggero ma non superficiale. Fresco come il vento della Sardegna, racconta l'incanto di un adolescente che forte della propria spontaneità inizia ad affrontare anche le crudeltà della vita. Fiaba contemporanea. Addolcente.







Trilogia di Fabio Montale, Jean Claude Izzo, e/o.
Un poliziotto marsigliese, un uomo che vive un rapporto passionale, nel bene e nel male, con la sua controversa città, porto dannato e maledettamente bello, metafora di un mondo che è uguale ovunque e che a prescindere dagli occhi con cui lo si guardi regala ad un certo punto della vita di chiunque una lucidità disincantata ma mai rassegnata. Noir mediterraneo. Umano.








Il collezionista di ossa, Jeffery Deaver, Sonzogno.
Lincoln Rhyme è un criminologo divenuto tetraplegico coinvolto in un'indagine su un assassino efferato.
Ritmo incalzante, tempi serrati, una lotta contro la crudeltà e le limitazioni del protagonista. Corroborante.







Il Signore degli Anelli, J.R.R. Tolkien, Rusconi.
Un mondo immaginario in un tempo immaginario, hobbit, elfi, anelli del potere, una saga che incanta da quasi un secolo, il potere salvifico della fantasia. Epico.

domenica 11 maggio 2014

Bibliopillola n.6: Per le figlie che diventano madri

Mentre riflettevo sui post precedenti ho guardato il calendario e la ricorrenza odierna ha provocato un corto circuito. Ho pensato a quanti tipi di madre esistono: biologiche, genetiche o semplicemente donne che prestano cura, crescono, insegnano, sostengono, amano. Figli, alunni, pazienti, nipoti, bambini, adolescenti.
La radice sanscrita della parola madre ha il significato primario di "misurare, preparare, formare". Da questa deriva poi il termine matr (mater in latino), "colei che ordina e prepara". 
Appunto.
Qualche mia sinapsi attivandosi ha estratto da un cassetto encefalico una delle più belle figure di madre che appartengono alla letteratura (che ho letto):
Clara Del Valle Trueba. Una donna singolare, con un curioso rapporto con le parole e un mondo incantato che frequenta insieme alla sua stessa realtà; madre di Blanca, nonna di Alba. Tre nomi di luce, un inno alla trasparenza e alla chiarezza delle vite semplici ma non per questo superficiali o leggere.
Il libro è La casa degli Spiriti di Isabel Allende: una saga familiare raccontata attraverso tre generazioni di donne sudamericane dai primi decenni del secolo scorso fino alla guerra cilena. Non è un libro facile da descrivere, fosse pure per raccontarne la trama: va letto e basta. Clara, creatura delicata e potente, concreta ed eterea, racchiude in sé per elargirle a tutti coloro che la circondano quelle che a mio parere sono le tre doti fondamentali di qualsiasi tipo di madre:
Coraggio, per far da scudo e proteggere finché si impari a sopportare e tollerare da soli;
Amore incondizionato, perché solo questo fortifica;
Magia, per non perdere mai il sorriso, la curiosità, per non adattarsi mai a nulla di normale, per osare sempre e non rassegnarsi mai, per vivere in modo speciale anche le giornate più banali (la magia in realtà insegna che non esistono giornate banali), per credere sempre in qualcosa di più, di altro, di tanto certo quanto sfuggevole. Perché ogni madre è allo stesso tempo potente, istintuale, ma anche terrorizzata da paure, insicurezze, stereotipi. Perché non c'e niente di più realisticamente sovrannaturale della vita stessa.
[Clara] non credeva che il mondo fosse una Valle di lacrime, ma al contrario una burla di Dio, sicché era stupido prenderlo sul serio, se Lui stesso non lo faceva.


giovedì 8 maggio 2014

Bibliopillola n. 5 - Confezione famiglia



Tutte le famiglie felici sono simili fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo
Iniziava in questo modo Tolstoj il suo racconto delle vicende familiari e romantiche di Anna Karenina e, pur portandomi dentro un pezzetto di Anna, concordo solo in parte con il punto di vista dell'Autore.
Perché, seppure convinta che ogni famiglia sia infelice a modo suo, sono altrettanto convinta che le famiglie felici siano semplicemente famiglie che hanno trovato la loro personale strategia per affrontare l'infelicità, fosse pure quella di negarla.
Il commento di Nina al post La cura di qualche giorno fa mi ha fatto riflettere parecchio: sull'utopia della famiglia mulinobianco, sull'estrema mobilità di quelli che ognuno di noi considera i confini della propria famiglia (dal nucleo minimo della coppia ad intere e vaste generazioni), sul fatto che molti di questi legami, imposti, finiscano spesso per appesantirsi di sensi di colpa, ricatti morali, dispetti e vendette che finiscono per trasformare le relazioni in catene e avvelenare quel poco di vita che abbiamo.
E alla fine del giro torno sempre lì: le aspettative. Quanto è enorme il bagaglio di cose che ci aspettiamo, desideriamo, vorremmo dagli altri.
... vorrei che mio padre mi avesse dato questo, che mia madre avesse fatto quest'altro, che i miei cugini fossero così o i miei fratelli cosà...
Sono le aspettative a rovinarci la vita. Non possiamo fare a meno di averne, ma se solo provassimo a vedere che sono "cosa nostra", parte di noi e non dell'altro, forse potremmo iniziare a vedere l'altro per quello che è: un essere umano, fallibile, imperfetto, tanto quanto noi, che non può fare a meno di essere quello che è. 
Anche se noi vorremmo qualcosa di diverso.
Un viaggio dentro se stessi complesso, lungo e difficile.

La letteratura è ricca di saghe familiari, perle di letteratura, a volte pesanti sia per peso cartaceo che per le vicende ed i temi narrati ed affrontati, ma per questa bibliopillola ho scelto una strada diversa, proprio con l'intento di alleggerire, di provare a spezzare qualche catena, o almeno provare a portarla con maggiore freschezza. Ho scelto un libro che si fonda sulla ricerca a tutti i costi di legami familiari che mostra alla fine che, a volte, questi legami... vabbeh! Un bicchier d'acqua e giù!

La bibliopillola n. 5, per Nina e per chiunque abbia una famiglia :D
Le luci nelle case degli altri, Chiara Gamberale

martedì 6 maggio 2014

Bibliopillola n. 4 - Pillola Rossa


In seguito alla pubblicazione del post precedente, al bancone sono arrivate alcune richieste. Alcune esplicite, altre meno. Ad ogni modo, il primo preparato é disponibile.
É una bibliopillola che serve a favorire un regolare ritorno a se stessi, che é il punto di partenza di ogni cura. E ci é stata suggerita da chi ha scritto che non trova spesso un libro adatto a sé. E nemmeno glielo regalano.
Abbiamo pensato che forse bisognerebbe cercare meglio: il che presuppone di sapere che cosa si sta cercando.
Abbiamo anche pensato che potrebbe essere necessario mostrare qualcosa di più di sé, agli altri, per diventare oggetto di cura.
Paradossalmente, mentre rimestavamo i nostri galenici, mi é venuto in mente, prima di un libro, un film.
"Immagino che in questo momento ti sentirai un po' come Alice, che ruzzola nella tana del bianconiglio [...] Hai lo sguardo di un uomo che accetta quello che vede, solo perché aspetta di risvegliarsi! E curiosamente non sei lontano dalla verità [...] Dovrai scoprire con i tuoi occhi qual é. È la tua ultima occasione, se rinunci non ne avrai altre. Pillola azzurra, fine della storia. Domani ti sveglierai in camera tua e crederai a quello che vorrai. Pillola rossa, resta nel paese delle meraviglie e vedrai quant'é profonda la tana del bianconiglio!" 
Morpheus (Lawrence Fishburne), The Matrix, Andy e Larry Wachoski, USA, 1999
La citazione é Alice nel Paese delle Meraviglie, fiaba più che nota: ma la bibliopillola segue Lewis Carroll oltre, Attraverso lo specchio.

Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò è un romanzo fantastico del 1871 scritto dal matematico e scrittore inglese Charles Lutwidge Dodgson con lo pseudonimo di Lewis Carroll, come seguito de Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie. Meno noto di quest'ultimo,  é un racconto complesso, zeppo di allusioni, citazioni, giochi di parole, riferimenti a proverbi, nonsense.
É la metafora fantastica di un viaggio alla ricerca di se stessi che si può compiere solo riflettendosi in qualcos'altro .... O qualcun altro.
Al di là dello specchio Alice trova tutti i personaggi delle sue filastrocche preferite, che riescono a prendere vita solo specularmente, al contrario, come tutto ciò che é riflesso. É una lettura surreale, a tratti assurda, ma insegna che bisogna essere disposti a rovesciarsi per comprendersi. Ad attraversare la superficie liscia che contorna la nostra realtà. Quando si torna indietro, ci si conosce un po' di più e questo sicuramente può servire a guardare (e guardarsi) diversamente (ne)gli occhi degli altri.

giovedì 24 aprile 2014

Bibliopillola 3 - Contro l'assenza


Su tutti i social, in questi giorni, è rimbalzata la notizia della scomparsa del grande Gabriel Garcia Marquez. Il tam tam mediatico ha contribuito ad un proliferare di necrologi, recensioni, testimonianze di tutti coloro che, in un modo o nell'altro, almeno una volta nella vita, sono passati per Macondo. Che è però una città che non esiste, nata da quei contorti segni vergati da una penna (che in fortunati casi come questo si trasforma in bacchetta magica) che hanno fondato dal nulla un villaggio nel cuore della foresta colombiana.
Macondo è il mondo stesso, magico e amaro allo stesso tempo, contraddittorio, rigoglioso e arido, colorato e squallido,  una città di specchi fra i quali c’è un continuo rincorrersi fra ombre fiabesche e fantastiche e personaggi e situazioni fin troppo reali, fra spiriti di gente già vissuta e uomini che lottano in carne e ossa, una realtà a mezz'aria, insomma, sospesa, una bolla fluttuante al di sopra delle aspirazioni, dei sogni, delle delusioni dell'umanità.

Macondo è il luogo di nascita di chiunque ami leggere. A prescindere dal fatto che si sia mai letto Cent'anni di solitudine, romanzo controverso, amato e stroncato in ugual misura da quasi mezzo secolo. E se mi è venuta voglia di prescrivere questa generica bibliopillola, adatta un po' per chiunque legga, è proprio perché, appartenendo alla schiera di chi, ahimè, amava “Gabo”, ne sto patendo, appunto, la mancanza.

mercoledì 16 aprile 2014

Bibliopillola n. 2 - Contro l'Etá della Ragione


Questa prescrizione riguarda un terribile equivoco nel quale molto facilmente si inciampa.
Le pagine dei libri possono rappresentare una sorta di filo di Arianna per trovare l'uscita da labirinti esistenziali.
È vero, abbiamo inaugurato questa farmacia anche perché lo pensiamo.
Ma ci si deve intendere bene: se srotolando il suddetto filo cominciamo ad orientarci e ad acquisire familiarità con quel tracciato apparentemente inestricabile di strade, allora ha giá funzionato. Non é detto che si trovi l'uscita; nei labirinti medievali spesso questa coincideva con il punto di partenza. Probabilmente dobbiamo continuare a camminare per irrobustirci: per comprendere che ció che sembra contorto é semplicemente ciò che siamo, ma non siamo ancora pronti (o piú pronti) ad accettare. Ci rimproveriamo di non esser sufficientemente bravi a trovare l'uscita; o di non averne piú la forza o peggio ancora la volontà. Ci rimproveriamo, o ci rimproverano, di essere coscienze smarrite.
Ma forse occorre proprio fare i conti con questo eterno errare dentro e fuori noi stessi.
"Ma vecchio mio, guardati un poco: hai trentaquattro anni, i capelli ti si stanno diradando, non hai più niente di un giovanottello, e la vita di bohéme non è più per te. E poi, si può sapere cos'è, la bohème? Era molto carina cento anni fa, ma adesso è un pugno di spostati che non rappresentano un pericolo per nessuno e che hanno perso il treno.
Tu hai l'età della ragione, Matteo, l'età della ragione, o almeno dovresti averla"
"Bah!" disse Matteo "quella che tu chiami l'età della ragione non è altro che l'età della rassegnazione, e io non ci tengo affatto".
Questa bibliopillola è per Titti che ha commentato quanto male possa fare la consapevolezza: perché non è detto che essa debba necessariamente coincidere o con la ragione o con la rassegnazione.

Jean Paul Sartre, L'etá della ragione, Bompiani, 2009




giovedì 10 aprile 2014

Bibliopillola 1 - Per le nottate interrotte

"Alle 2.00 circa, però, due o tre file non correttamente chiusi nel cervello, la prima zanzara della stagione e la gatta piagnona dietro la porta della mia camera mi hanno ributtata al mondo. Dopo aver navigato in lungo e in largo nei documenti spalancati nella testa senza trovare soluzione degna di questo nome, neppure la consolante frase "domani è un altro giorno" avrebbe avuto il potere di riportarmi nelle braccia di Morfeo". (Mariarosa)
Mi è quasi caduto addosso, nel senso che ho avuto la sensazione che sia stato lui a trovare me. Intendo, il primo libro da farmacista letteraria, la prima pillola letteraria di ApoTeche. Nonostante non ci sia stata una vera e propria richiesta di aiuto, il commento di Mariarosa al post di qualche giorno fa Consapevolmente ha fatto scattare la molla che ha messo in moto il meccanismo per cui la Farmacia Letteraria è nata.

O forse, semplicemente, è cascato un libro dallo scaffale. E mi sembra proprio una bella terapia d'urto, perché racconta i mille modi in cui si cerca se stessi. Racconta di come solo gli altri, a volte, possano dirci qualcosa di noi, anche a distanza di anni, anche da luoghi diversi. E di come, inesorabilmente, anche laddove si tenti di evitarlo, solo le parole salvano: ma bisogna essere capaci di farlo. Al limite, impararlo.
"Vede Rebecca, una cosa mi sembra di averla capita. Pensavo che parlare non fosse assolutamente necessario, io ho terrore delle chiacchiere, non potevo certo pensare di chiacchierare con lei. E poi temevo che si finisse con una cosa tipo psicanalisi o confessione. Una prospettiva agghiacciante, non trova? [...] però, vede, mi sbagliavo. La verità è che devo accettare di parlare, anche una sola volta, due al massimo al momento giusto, ma devo essere capace di farlo".

Pensa un po', Mariarosa: il protagonista che sta parlando è uno scrittore che ha deciso di smettere, perché "un giorno mi sono accorto che non mi importava più di nulla e che tutto mi feriva a morte".
Ma non ci si può allontanare mai del tutto da quello che si è. Nonostante la consapevolezza sia dolorosa.
"Mentre spegneva le luci e trovava ancora qualcosa da rimettere a posto, ebbe la sensazione strana di non essere lì, e di rifinire i dettagli della vita di un'altra. Con una punta di sconcerto capì che, in un solo giorno, una certa distanza a cui aveva lavorato per anni, si era scostata con eleganza - una tenda in un colpo di vento.
E da lontano la raggiunse una nostalgia che credeva di aver sconfitto".
Et voilà, la bibliopillola1: una cura per le nottate, e le vite, interrotte.


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